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Giovannino ci ha detto…

Quando la Redazione mi ha chiesto di dare un seguito ai miei precedenti pezzi su Giovannino Guareschi ho creduto di avere un’idea geniale. Immaginare di ritrovare vivo il celebre scrittore e intervistarlo utilizzando le frasi dei suoi libri ed i suoi aforismi per le ipotetiche risposte. Manco a dirlo, l’idea era già stata avuta, niente di meno che da Guareschi stesso che pensò di far rivivere Giuseppe Verdi, realizzando un capolavoro di finta intervista. Per la realizzazione di questo impegnativo progetto, non ho potuto che avvalermi dell’aiuto di uno dei massimi esperti di Guareschi: Egidio Bandini.

da Capitale Intellettuale

Egidio Bandini Condirettore della Rivista Candido e Collaboratore della Gazzetta di Parma

Danilo Coppe Presidente Istituto Ricerche Esplosivistiche di Parma

Fa caldo a Fontanelle: un caldo che si vede, proprio come quello che descriveva lui, Giovannino Guareschi nei suoi racconti, con quel sole che picchia martellate sulla testa della gente. Ma la magia della Bassa, sotto questo viale sterminato è ancora quella di tanti anni fa e basta guardarsi attorno per vedere giusto Giovannino, arrampicato sulla sua Dei, che guarda l’orizzonte di questa campagna a perdita d’occhio.

Un momento, ma non si è mosso? Non ci ha seguiti con lo sguardo? Torniamo indietro: «Scusi, signor Guareschi, credevamo che fosse morto…». «Sapete una cosa?» ha sussurrato il Giovannino di bronzo in bicicletta «credevo anch’io di essere morto, tantissimi anni fa. Ma sono ancora qui: il reparto “K” è sempre sovraffollato e non c’è posto, da allora*». Facciamo mente locale e capiamo al volo l’allusione, ma vogliamo approfittare del momento: «In tutti questi anni che comunque è rimasto qui, avrà fatto in tempo a vedere cosa sia successo e stia succedendo in Italia». Il viso di Guareschi si fa improvvisamente serio: «A parte qualche faccia, cambiata per evidenti motivi anagrafici, è rimasta sempre, immutabilmente uguale alla “povera Italia” iniziata con il boom economico e proseguita in tutte e tre (se non erro adesso sono tre) le repubbliche: un’Italia più ricca e benestante, ma decisamente peggiore dell’“Italia povera” del dopoguerra, quando avevamo tutti delle grandi speranze e un grande entusiasmo! Ecco perché continuo ad essere monarchico”

“Ma come? Ancora oggi?” gli chiediamo in coro.

“Sì, ma solo perché non c’è più il Re”.

L’argomento lo rende irascibile, così cerchiamo di blandirlo, in qualche modo: «Ha saputo che finalmente in una delle antologie della lingua italiana per le scuole c’è un suo scritto?». Sotto i baffi ad ala di rondone spunta un sorriso: «I miei scritti sono stati tradotti in tutte le lingue del mondo, anche in braille per i ciechi, eccettuata la italiana. Ed è per questo che i critici italiani non hanno mai preso in considerazione i miei scritti».

Insistiamo: «Beh, nonostante l’antologia, nemmeno oggi lei gode di grande fortuna da parte dei critici, ma in tutto il mondo cresce il numero dei suoi tantissimi lettori e dei semplici appassionati che a milioni si divertono ancora con i film della serie “Don Camillo”». La cosa sembra divertirlo: «Vi risponderò con una frase del maestro Verdi» dice ridendo Giovannino «“Cielo! Morto da tre mesi e non ancora dimenticato?” Ma vi dirò di più. Forse alla fin fine aveva ragione lo sceneggiatore Renée Barjavel: non si può pretendere che un povero scrittorucolo di campagna, dopo averli scritti, debba anche capire i suoi libri! Ma scusatemi, non vorrei che qualcuno ci vedesse e pensasse che voi siate matti o che io sia l’unica statua vivente al mondo. Andate, grazie».

Non ci arrendiamo: «Veramente, sa, visto che abbiamo avuto la fortuna di incontrarla, vorremmo farle ancora qualche domanda, magari non restando qui…». Gli occhi del Giovannino di bronzo si illuminano: «Beh, è ora di pranzo e siamo proprio nel cuore della mia terra natale, dove qualcuno sta cercando di portare la cucina molecolare e altre porcherie del genere, ma come tanti anni fa, fortunatamente c’è ancora il salame, la spalla cotta e il culatello che sono straordinari, tanto che se io dovessi nascere maiale, pregherei Dio di farmi nascere alla Bassa (Questione di pastura, di aria, di acqua)». Il Giovannino fatto di aria e di sogni che era uscito la Vigilia di Natale del 1944 dal lager tedesco si stacca dal monumento e ci precede, lungo la strada, fino alla piazza e poi avanti: «Ecco, siamo arrivati. Questa è, o, meglio, era, l’osteria della “Bella Rosa”. Oggi a pranzo ci siamo solo noi e qui, davvero, nessuno ci disturberà».

La procace ostessa compare misteriosamente assieme a un grande tavolo di legno con le gambe a cipolla, tre fogli di carta paglia, tre piatti di sasso e tre scodelle di quelle da “fojèta” con una superba bottiglia di lambrusco fresco di cantina, una “miseria” di pane fresco e una “carta” di salame da far risuscitare i morti: «Se i signori vogliono restare serviti». «Grazie, Rosa» dice sorridendo Giovannino «questi sono due miei cari amici: mi raccomando!»

La donna s’inorgoglisce: «Stia tranquillo, signor Guareschi, ci penso io!» E scompare verso la cantina. Mentre sorseggiamo il lambrusco e ci tornano in mente le parole di Bruno Barilli: «Il così detto vino della Bassa, una mistura schiumosa, esagerata…» vediamo quanto Giovannino gusti lentamente i sapori della sua terra, come don Camillo quando era ricoverato in ospedale e, dopo 25 giorni di brodini e pappine, finalmente “Peppone cavò di sotto la giacca un involto e l’aperse. Depose ogni cosa sul comodino e tirò su don Camillo, accomodandogli i cuscini sotto la schiena. Poi distese in grembo al malato un tovagliolo e vi depose la roba: una micca di pane fresco e un piatto di culatello affettato. E don Camillo cominciò a mangiare pane e culatello. Poi Peppone stappò la bottiglia di lambrusco e il malato bevve il lambrusco. Mangiò e bevve lentamente e non era per ghiottoneria, ma per sentire meglio il sapore della sua terra. E ogni boccone e ogni sorso gli portavano un’onda di acuta nostalgia: i suoi campi, i suoi filari, il suo fiume, la sua nebbia, il suo cielo. I muggiti delle bestie nella stalla, il picchiettare lontano dei trattori intenti all’aratura, l’ululare della trebbiatrice”.

“Tutto questo mangiare poco vegano non le farà male?” Chiediamo. “Per come funziona la Sanità pubblica…”

Giovannino ingollando avidamente il boccone glissa: “I dottori per guarirvi hanno bisogno di poco: pur che vi possano proibire qualcosa tutto va a posto. L’astuzia sta nel farsi proibire soltanto le cose cui si tiene di meno”.

Adesso l’atmosfera era davvero quella giusta, anche per parlare di politica e, perché no, di guerra. «Signor Guareschi, cose ne pensa della guerra che si è riaffacciata in Europa?». Il viso di Giovannino si fa scuro: «Di guerre mondiali, una l’ho sentita raccontare, da mio padre e da tanta altra gente; la seconda l’ho vissuta in prima persona, da ufficiale di artiglieria del regio esercito prima e da Internato militare italiano nel Lager nazisti poi. Per quello che mi riguarda, la storia è tutta qui. Una banalissima storia nella quale io ho avuto il peso di un guscio di nocciola nell’oceano in tempesta, e dalla quale io esco senza nastrini e senza medaglie ma vittorioso, perché, nonostante tutto e tutti, io sono riuscito a passare attraverso questo cataclisma senza odiare nessuno. Anzi, sono riuscito a ritrovare un prezioso amico: me stesso.

Evidentemente, però, la lezione non è servita, perché oggi, come ottant’anni fa, c’è ancora qualcuno che pretende di impadronirsi della terra di qualcun altro e lo fa con le bombe e i carri armati. E la gente si schiera per l’uno o per l’altro come ad una partita di calcio. Ma bisogna ricordare che ai miei tempi prima arrivarono gli Inglesi a liberarci dei Tedeschi e poi vennero gli Americani a liberarci degli Inglesi.

C’è bisogno quindi di leader che sappiano trattare alla pari con le super potenze?

Mah, da quel che vedo in Italia politica estera significa turismo a spese del governo…”

“Vabbè, ma allora per far funzionare meglio le cose…” insistiamo.

“Guardate, al mondo ci sono soltanto gli uomini che non funzionano. Per il resto ogni cosa funziona perfettamente.

Questa, alla fine, è l’opinione che ho io sulla guerra: è un avvenimento surreale, per il fatto che individui della stessa specie, pur non avendo specifici motivi per odiarsi vicendevolmente, si adoperano in tutti i modi ad accopparsi l’un l’altro, solo perché qualcuno glielo ordina. E al termine dell’opera, per quanto si sforzino di credere il contrario, nessuno dei due vince”. L’ho scritto nel 1946, sul numero 39 del “Candido”: “La storia continua. Reazione, internazionalismo, resistenza, liberazione, epurazione ricostruzione, socializzazione, democrazia progressiva: nuovi equivoci per un nuovo capitolo di storia, nuove parole da masticare e rimasticare, da far maciullare dalle linotypes, da svuotare del loro significato. Intanto le vecchie parole usate e abusate, ridotte a pelle ed ossa, riposano e si rimpolpano e riacquistano significato, e domani ritorneranno fuori e rimetteranno in circolazione vecchi equivoci vestiti di nuovo.

Nei cieli d’Italia stormi d’eroi si susseguono a ondate successive, e l’uno stormo è nemico all’altro, e l’uno scaccia l’altro: ma è soltanto un cerchio che si allarga, è un giro eterno che non finisce mai perché gli uomini son sempre gli stessi e la storia fatta con gli errori degli uomini. E perciò, prima di cancellare un nome inciso su un marmo, bisognerebbe pensare che chi muore combattendo in buona fede per un’idea che egli crede onesta è un galantuomo, e i galantuomini, almeno quando son morti, bisogna rispettarli.

Ed è poi inutile accanirsi perché è infinitamente più difficile uccidere un morto che un vivo. Ma chi può giudicare se uno ha combattuto in buona fede per una idea che egli credeva onesta? Nessuno. E allora spezziamo pure tutti i marmi e cancelliamo pure tutti i nomi che non siano collaudati dal giro dei secoli: però non incidiamone più. Lasciamo ai posteri l’ardua incombenza.”

In Italia, purtroppo, funziona così: “[…] ciò che fa più soffrire nel suo intimo il popolo italiano è che, più o meno, si può parlare liberamente e, più o meno, comandano un po’ tutti. Mentre il popolo italiano sogna una dittatura per poterne parlar male, per poterla avversare. L’italiano ha bisogno di sentirsi sovversivo. Avendo scarsissima fiducia in sé stesso, l’italiano, per sentirsi qualcuno ha bisogno di essere “anti” qualcosa. O per la Juventus o contro la Juventus, o per Verdi o per Wagner, o per i bianchi o per i neri: nello sport, nella musica, nella politica, tutto diventa per l’italiano una questione di fede. E così gli italiani sono ugualmente pronti a scannarsi per un centrattacco, per un tenore, per un capopartito.

A ciò contribuisce la innata passione per il divo. Nella mia città dove esiste un antico quanto celebre teatro, i più appassionati tifosi lirici assistono alle rappresentazioni rimanendo a bere e a mangiare allegramente dentro il camerino annesso al palco. Ogni tanto si affaccia alla porta del camerino l’amico che ha il turno di guardia e dice: «Ehi! L’è chì!». Allora tutti, con un balzo, raggiungono il palco: ascoltano religiosamente la romanza o il pezzetto d’abilità del tenore prediletto, urlano come dannati e sbatacchiano le mani fino a quando hanno ottenuto il bis, quindi ritornano al pasto interrotto. L’opera, anche se è in quattro atti, consiste semplicemente per i nostri eccellenti musicofili a sfondo gastronomico, nel tenore X considerato però esclusivamente nei pezzi dove può cacciar fuori uno di quegli acuti che fanno crollare i più saldi lampadari. Passando dal campo lirico al campo politico, intatta rimane la passione per il divo. E se in campo musicale, per amor del tenore prediletto si va ad ascoltare anche una opera che non piace, così, per amor del tenore dal potente acuto, si può accettare di aderire al partito per il quale canta il divo, anche se quel partito ha un programma che non convince. E quando a un bel momento il divo adopra i suoi più possenti acuti per cantare alla massa che è arrivato il momento di prendere le armi e partire, la massa si lascia vincere dall’entusiasmo lirico e risponde col coro del «partiam, partiam». E purtroppo non rimangono lì fermi a braccia conserte come nei famosi cori del melodramma, ma partono sul serio e molti non ritornano. E ciò è grave».

La domanda, a questo punto, è praticamente conseguente: «Ma allora, per questa Italia, non c’è davvero speranza? Ci sono soltanto pro e contro o, meglio, contro e contro?». A risposta è fulminea: «Non è proprio così, la speranza rimane e ve lo testimonia un fatto che mi è accaduto e ho raccontato in “Italia provvisoria”: “Viaggio sulle ex ferrovie dell’ex stato. Da Treviso a Mestre in uno scompartimento con poca gente. Un biondo giovanotto trevigiano vicino a me spiega che accompagna a casa sua la bruna moglie siciliana, e io penso al secessionista Finocchiaro Aprile, agli anti-nordisti e agli anti-sudisti, a Gilberto Loverso che vuole tagliare l’Italia in tre fette, ai milanesi che scrivano sui muri «Milan ai milanes», e a Massimo Simili che scrive sul suo «Scirocco»: «Catania ai catanes». Signori: questo piccolo asse Treviso-Palermo vi frega tutti”. È qui che risiede la forza degli italiani, guerra o non guerra, politica o passioni: rimane intatta la fede in una “trinità” laica e religiosa ad un tempo, Dio, Patria e Famiglia. Patria e famiglia stanno facendo di tutto per farle dimenticare, ma il Padreterno rimane al suo posto, eccome!».

Però signor Guareschi i suoi valori oggi vengono considerati oltre che obsoleti anche “scorretti” da un Dio che non deve essere più un unico Dio, da una Patria che non deve avere confini e da una famiglia che non deve più essere tale senza una fila di consonanti (LGBTQ)…

A questo punto Giovannino sfodera uno dei famosi mezzi sorrisi sotto gli immensi baffi e allargando le braccia bofonchia: “Mi dispiace per Voi ma spero tanto che il Reparto K liberi al più presto un posto, perché qui non saprei da che parte cominciare a fare satira”.

“Vabbè”, insistiamo, “ma un consiglio per come andare avanti ce lo vorrà pur dare…”

“Bisogna sognare: aggrapparsi alla realtà con i nostri sogni, per non dimenticarci d’esser vivi. E chi non trova un biografo deve inventare la sua vita da solo. Ho dovuto fare di tutto per sopravvivere, tuttavia, tutto è accaduto perché mi sono dedicato ad un preciso programma che si può sintetizzare con uno slogan: “Non muoio neanche se mi ammazzano”. Ed ecco perché mi avete ritrovato ancora in giro”.

Dopo di che, inforcando la bicicletta, fa per andarsene.

Cerchiamo di fermarlo. “Signor Guareschi, avremmo ancora tante cose da chiederle!”.

Ma lui, ormai in strada, si volta e saluta.

“Vabbè ragazzi, se non possiamo tenerci visti, almeno teniamoci pensati”.

L’Eterno Padre, seduto allo scrittoio, intento a scartabellare grossi registri, era nervosissimo e m’ha interpellato bruscamente: «È questo il modo di presentarsi? Cosa vuoi? Chi sei?». «Un morto, ma mi deve perdonare perché sono ancora novellino…». L’Eterno non m’ha lasciato continuare: «Magnifico, stupendo! Ci mancavi proprio tu! Già un morto, e alle sette del mattino. Si può sapere cosa vuoi?». «Desidererei sapere dove debbo andare… Sa, io non sono pratico». Scrollando il capo con impazienza l’Eterno ha cominciato a sfogliare un librone: «Dunque tu, giovanotto, sei stato assegnato al “Reparto K” del Paradiso e il “Reparto K” è zeppo come un uovo e non c’entrerebbe più l’anima di un bottone. Hai capito?». Tu adesso mi fai il piacere di andartene via e di ripresentarti quando ti chiamo. Sbrigati a ritornar giù che trovi il tuo corpo ancora caldo.». Ho detto signorsì e sono ritornato a Parma in ispirito. Sono tornato in centro e ho gironzolato fino alla sera annoiandomi ragguardevolmente: capirete, Parma è una città dove si muore da vivi, figuriamoci se ci si può vivere da morti! Venute le ventuno, un po’ per forza dall’abitudine, un po’ perché non avevo altro da fare, sono andato dalla mia ragazza. Ci sono andato in casa, per la prima volta: ma quando si è morti certe sciocchezze si possono fare impunemente. In casa non c’era, nel borgo non c’era. Nel cinema, nei viali, la ragazza non c’era. Mi sono stancato di girare e, a un bel momento, ho detto: sarà per un’altra volta. Andiamo a dormire. E mi sono alzato in volo verso gli aerei appartamenti di Borgo del Gesso. La ragazza era in casa mia: niente di strano perché la mia ragazza ha sempre avuta la chiave della mia cameretta. La fanciulla era in casa mia, seduta sul mio letto e vicino a lei stava un bellissimo giovane che io conoscevo di vista. E lei gli sussurrava con voce accorata: «Temistocle pensa, cosa direbbe se ci vedesse qui, sul suo letto e se sapesse che per quattro anni gli abbiamo fatte le corna?…». Me ne sono andato senza far baccano: ero felice perché finalmente avevo trovato la spiegazione dei «meriti speciali» che m’avevano fatto guadagnare il Paradiso. Me ne sono andato a girare a lungo i viali ove fiorì per quattro anni il mio amore, mormorando: «Benedetta tu sia o fanciulla: tu sola hai saputo procurarmi un posto nel “Reparto K” e nel Paradiso, senza neppur pretendere che io ti sposassi, come fanno tante altre».

(G. Guareschi “Bianco e nero” Rizzoli BUR 2019).

ANNO 12 N.2

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