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Verso un’etica della responsabilità

da Capitale Intellettuale

Claudio Widmann – Psicoanalista junghiano, scrittore, docente presso varie Scuole di Specializzazione in Psicoterapia

Colpisce sempre costatare che in natura i diritti non esistono, nemmeno il diritto alla vita (meno che mai il diritto alla vita). Nessun germoglio può rivendicare il diritto allo spazio vitale presso piante più esuberanti che lo soffocano, nessuna lepre può rivendicare il diritto alla vita presso le volpi, gli imponenti orsi delle caverne non poterono rivendicare il diritto a non essere sterminati da orde di piccoli ominidi. I diritti dell’uomo sono un’invenzione dell’uomo, perché la Natura è animata da uno strapotere di cui tutti i suoi figli -dai microscopici virus ai mastodontici mammut- sono contemporaneamente attori e vittime.

Questo gioco di forze non è esente da costrizioni esterne ed interne. La legge del più forte e la dominanza del branco, la potenza degli istinti e la forza dell’abitudine sono esempi che mostrano quanto l’individuo sia ingabbiato in un reticolo di obbligazioni fin dai tempi pre-umani. Ma il bilanciamento dei doveri con diritti corrispettivi è una prerogativa dell’uomo. Taluni contraddistinguono i doveri che scaturiscono da abitudini, consuetudini, costumi (mores) con il termine “morale” e riservano il termine “etica” ad altre obbligazioni, che fissano i principi generali di comportamento (ethos).

L’etica è un prodotto culturale come tutto ciò che gravita nel suo campo semantico: giustizia, morale, legge, diritto, coscienza, responsabilità… Investigando le motivazioni che portarono alla costruzione di queste categorie, S. Freud ipotizzò che esse attingano non alla bontà dell’uomo e alla sua nobiltà d’animo, ma alla sua intrinseca cattiveria, all’eccezionale tasso di aggressività intraspecifica che rende l’homo homini lupus.

Non per spirito di giustizia, cioè, ma per proteggersi dallo “strapotere della natura” e per tutelarsi dalla propria stessa pericolosità, l’uomo s’è dato dei codici di comportamento. In un’epoca in cui un frastornante refrain invoca e talora inventa diritti di ogni tipo, non è superfluo rammentare che i codici comportamentali nascono per imporre doveri.

Ricostruire le tappe di questo percorso non è facile. Tracce etologiche, mitologiche e antropologiche lasciano supporre che originariamente i codici siano stati dettati dal più forte, il capobranco, il capotribù o semplicemente il Capo, colui che per vigore fisico o per carisma personale era in grado di imporre i suoi dettami con autorità.

Benché l’imposizione autoritaria di norme comportamentali non possa certo dirsi superata (si pensi all’educazione dei bambini o alla repressione dei regimi totalitari), l’autorevolezza intrinseca dei principi assunse rilievo via via crescente. Le “verità rivelate” da entità metafisiche ne costituiscono esempi universali; sono i dieci comandamenti dell’ebraismo, la shari’a dell’islamismo, il dharma del brahmanesimo. A rivelare al consorzio umano verità che scendono dall’alto sono figure dalle caratteristiche eccezionali come Cristo, il Figlio di Dio o Buddha, l’Illuminato per antonomasia. L’origine metafisica dei principi normativi e l’eccezionale levatura dei loro estensori costituisce l’autorità dei codici rivelati.

Altre figure, però, fondano l’autorevolezza dei principi non sull’origine metafisica, ma sulla validità dei costrutti. Platone ritiene che il Bello sia lo splendore del Vero e individua nel binomio kalos- kagatos i principi che dovrebbero orientare l’uomo verso la Verità; Aristotele eleva a principi assoluti la triade Bello-Buono-Utile e li pone a fondamento della sua etica. Heidegger sposta addirittura il valore dei principi dal piano oggettivo a quello soggettivo: non sono delle verità oggettivamente superiori che debbono orientare le condotte dell’uomo, ma quelle capaci di conferire alla vita pienezza di senso (sinnvoll).

Come si vede, molti hanno carezzato il disegno di fissare principi di comportamento assoluti, finendo per allungare la lista dei criteri relativi. L’idea di Giustizia è universale e archetipica (C. G. Jung), ma le sue declinazioni sono innumerevoli e tutte relative. La stessa Etica nicomachea di Aristotele sfuma nell’indefinito, quando riconosce che, in quest’ambito, occorre accontentarsi di verità appurate in maniera approssimativa e rudimentale, rinunciando alle superiori “verità apodittiche”, rette sull’inconfutabilità della logica. Aristotele è costretto ad accontentarsi di verità fondate sulle opinioni, anche se richiede che tali opinioni siano “condivise dai più o almeno dai migliori”. Giunge, così, ad un’affermazione capitale: il valore dell’etica non sta nei principi, ma nell’uomo e, per lui, cifra distintiva dell’uomo è il logos. La misura dell’uomo è la sua capacità di vivere secondo ragione.

L’assunto rimane imperante per secoli e diventa addirittura basilare, quando l’epoca dei lumi si dà l’obiettivo di procedere a formulazioni indipendenti da verità metafisiche e dogmi teologici e vuole concepire un’etica rigorosamente razionale, integralmente umana, etsi deus non daretur: come se dio non fosse dato. Almeno nel modo di procedere si va verso il superamento dei principi aprioristici e s’inaugura un’etica retta sulla conoscenza e orientata cum-scientia: un’etica della coscienza. Le funzioni conoscitive vengono investite di compiti valutativi, orientativi e decisionali, la coscienza gnoseologica si fonde con la coscienza morale e diventa l’organo psichico della funzione etica. É così che Kant può spostare il baricentro dal contenuto formulato all’organo che lo formula, elevando a criterio etico qualunque “massima, che possa valere sempre come principio di una norma universale”. Là dove la ragione è considerata la funzione più illuminata dell’uomo, si affida alla ragione il compito di illuminare le scelte umane.

A un’indagine serrata, però, la ragione non sembra all’altezza delle idealizzazioni coltivate dall’illuminismo. Per esempio, si trova metaforicamente in conflitto d’interessi, quando deve contemperare l’espansionismo scientifico o economico con altre esigenze, che pure sono squisitamente umane. In un toccante discorso, Robert Kennedy riconobbe tutte le ragioni che spingono al costante incremento del PIL, ma fece notare che “il PIL mette nel conto programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini, ma non tiene conto della loro educazione o della loro gioia”. Logos e ragione non sono arbitri obiettivi, super partes, ma fattori parziali di un campo globale, non esenti da influenzamenti e parzialismi.

Profondamente segnato dalla lunga e cruenta “guerra mondiale unica”, il Novecento ha iniziato a perlustrare i limiti di una coscienza fondata sulla ragione. In ambito filosofico T. Adorno ha sostenuto che il baricentro dell’etica non può essere la sola valutazione razionale e ha affermato l’esigenza che questa venga supportata da funzioni e valutazioni extra-razionali, tra cui la partecipazione alla sofferenza umana.
 

É necessario, sostiene Adorno, che il dolore diventi eloquente, facendosi condizione di ogni verità a cui ispirare scelte e comportamenti. In ambito psicoanalitico M.-L. von Franz è stata rigorosa nel denunciare la collettiva rimozione della funzione sentimento in epoca moderna, sostenendo -nel contempo- che il problema etico è una questione di sentimento, su cui l’intelletto nulla ha da dire. É paradossale, nelle sue conclusioni, che un problema di tale entità sia gestito da una funzione collettivamente svalutata e malamente coltivata. In ambito teologico autori come E. Gius o J. B. Metz hanno riproposto l’esigenza di riconoscere la realtà del dolore e di fondare sull’esperienza universalmente nota del dolore i criteri orientativi dell’ etica. Anche in questo caso la funzione-sentimento è chiamata ad affiancare la funzione-pensiero nell’esercizio della coscienza etica; nell’universalità del dolore si rintraccia il fondamento possibile di un’etica universale e nell’autorità debole di coloro che soffrono (e non nell’autorità forte di qualsiasi potere) si individua la massima autorità etica.

Nel dibattito sull’essenza dei principi etici (imposti da persone forti o sagge, rivelati dall’aldilà o da entità superiori, individuati dalla mente razionale o dalla logica del sentimento) s’inserisce un’antica e irrisolta questione. Già nel I sec. d. C. l’apostolo Paolo in una lettera ai Romani confessava con umana sincerità: “Non il bene che voglio io faccio, ma il male che detesto è ciò che io faccio”. Queste parole scolpiscono la distanza tra i principi che si abbracciano e i comportamenti che si praticano. E il baricentro si sposta nuovamente; questa volta si sposta dalla conoscenza all’azione, dalla con-scientia alla responsabilità: l’essenza dell’etica non sta nell’individuazione di principi nobili e illuminati, nemmeno se, per ipotesi, questi avessero valore universale; sta nell’attuazione di quei principi.

Una millenaria etica della colpa colpisce la violazione deliberata e volontaria dei codici sociali, delle prescrizioni morali, dei dettati etici; la condanna del dolo e, più genericamente, della trasgressione volontaria è consolidata da millenni. La riflessione del Novecento apre altri scenari.
Erich Neumann, ebreo tedesco costretto all’emigrazione durante il regime nazista, in uno scritto dell’immediato dopoguerra non ripercorre la scontata condanna del nazismo, ma chiede a se stesso e ai suoi connazionali: “Dove eravamo noi, quando si preparava la catastrofe?”. Il suo interrogativo non ribalta artatamente sulla vittima la colpa dall’agente, ma rovescia i criteri della responsabilità. La responsabilità della malafede e dell’insubordinazione non è mai stata in discussione, ma qui Neumann chiama in causa anche l’atto involontario, la conseguenza inintenzionale, l’ingenuità e la debolezza umana. Nel suo linguaggio, noi siamo responsabili anche dell’“Ombra” ovvero del nostro lato oscuro, inferiore, incivile; dell’Altro da noi, che a tratti noi interpretiamo, anche se in esso non ci riconosciamo. La “nuova etica” di Neumann sostiene che noi siamo responsabili anche delle condotte in cui non ci riconosciamo.

Il concetto di alterità acquista particolare estensione nell’etica contemporanea e, se Neumann s’appunta sull’alterità interna a ciascuno, altri spostano la riflessione sull’esterno.

H. Jonas definisce l’Altro come “colui che non è come me” e conferisce al termine responsabilità la connotazione saliente di tutela. La sua chiamata alla “responsabilità dell’Altro” è una chiamata alla tutela dei diversi da me. Senza lasciare spazio ad accezioni restrittive o di comodo, E. Levinàs include nel concetto di alterità anche l’Altro che ancora non c’è (e in tal modo rende responsabile l’uomo attuale degli individui futuri) e l’Altro che non ha individualità (animali, microrganismi, tutto l’inorganico, il clima, l’ambiente, le macchine). L’etica della responsabilità parla con voce attuale di emergenze attuali, dove la parola emergenza conserva il duplice significato di urgenza e di emersione.

É significativo che, sotto la pressione della pandemia da Covid-19, siano risuonati con inusitata insistenza i richiami alle regole, al rispetto delle direttive ed espressamente alla responsabilità. Tra aprile e maggio 2020 il monitoraggio del portale Treccani ha rilevato che, tra le parole più frequentemente indagate, compariva proprio la parola responsabilità. É poco più che un aneddoto, ma forse è l’indizio che la responsabilità è un’emergenza collettiva.

L’etica della responsabilità è un elemento di spicco nello specifico umano. Le sue funzioni e i suoi dilemmi richiedono approfondimenti mirati e aggiornamenti costanti, poiché ogni giorno essa dilata i propri orizzonti applicativi. Ma un assunto rimane inamovibile: l’urgenza che individui sempre più numerosi migrino dalla diffusa elusione delle responsabilità verso un’assunzione sistematica di esse. Goethe diceva che “in fondo alla sua anima ognuno sa cosa vuole la sua coscienza”; ciò non è ancora etica, se alla superficie del comportamento manifesto quell’individuo non si muove in maniera congruente con ciò che avverte nel proprio profondo.

ANNO 10 N.1

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