Claudio Widmann – Psicoanalista junghiano, scrittore, docente presso varie Scuole di Specializzazione in Psicoterapia
Il rito è una realtà antropologica tanto diffusa da poter essere considerata universale.
Ovunque nel mondo e nella storia vi sono persone che in modi variamente complessi rivolgono il saluto al sole nascente e l’ultimo saluto a persone morenti, che con atti particolari ufficializzano l’ingresso di un membro in una comunità oppure la sua uscita, che sacrificano animali e offrono fiori a entità metafisiche che non si nutrono di animali né di fiori.
Il comportamento rituale pare così naturale che, là dove la storia sfuma nella preistoria, gli archeologi hanno trovato ovvio ricomporre labili documentazioni paleolitiche entro il quadro di supposti rituali di caccia. Leroi-Gourhan (1964) ha mostrato tutta l’arbitrarietà di queste ricostruzioni, ma è significativo che vari studiosi abbiano immaginato l’uomo preistorico precocemente dedito a pratiche rituali.
Estendendo l’osservazione dal comportamento umano a quello animale, gli etologi descrivono in maniera più documentata rituali di corteggiamento e di attacco, voli nuziali e riti funerari veri e propri. Il rito, in sintesi, è una forma comportamentale elementare. Ha antecedenti pre-umani e nella sua universalità è tanto diversificato che la stessa definizione non è né facile né univoca (Goody, 1977).
A caratterizzarlo è una certa eccedenza operativa: ogni rito comporta un esubero di attività rispetto allo scopo perseguito. La lunga danza di corteggiamento che negli scimpanzé coinvolge vari componenti della comunità, per esempio, è esuberante rispetto all’atto fecondativo, e riti funerari protratti per mesi eccedono manifestamente lo scopo di dare una dimora ultima alla salma. Un rito è sempre ridondante, di una ridondanza strutturale, che non è legittimata dall’obiettivo manifesto, cui è finalizzato. La sua raison d’être va ricercata su piani diversi da quello apparente e da quello pragmatico.
Uno di questi concerne l’atmosfera emotiva che lo avvolge. Depositare piccoli lumi sulle acque del Gange, mentre le pire funerarie gettano bagliori dalla riva, è diverso dall’accendere il fuoco sotto una pentola in cucina; mettere l’anello al dito di chi ci sarà compagno/a di vita è diverso dall’infilare un oggetto forato in un supporto qualsiasi. Il rito conferisce un’aura di eccezionalità a gesti usuali e trasfigura atti ordinari in eventi straordinari. S’intravede qui che, nella sua ridondanza operativa, esso assolve funzioni emotive.
Talvolta ha l’effetto di intensificare la partecipazione emotiva. I berserkers, per esempio, i feroci guerrieri di Wotan, alla vigilia della battaglia vestivano pelli d’orso, si scatenavano in una danza che mimava le movenze di questo animale, si identificavano con esso e, in un crescendo di esaltazione, mordevano gli scudi, bramosi di azzannare i nemici. Raggiungevano in tal modo uno stato di furor (berserksgangr), che li rendeva indifferenti al pericolo e insensibili al dolore. Una sotterranea linea di continuità connette i loro riti con molte danze di guerra, con l’high five (“batti cinque”), il fist bump (pugno contro pugno) o l’urlo corale praticati da sportivi contemporanei per caricarsi a vicenda.
Ma un rito non ha solo l’effetto di intensificare l’emotività; in certe versioni ha l’effetto opposto di ridimensionarla. Pianti, lamentazioni funebri e cerimonie di commemorazione, ninne-nanne, dondolii e rituali di addormentamento sono esempi di attenuazione dell’intensità emotiva. Il rito, dunque, è un modulatore dell’emotività; può esaltarla oppure smorzarla e viene piegato ad entrambe le finalità.
Parallelamente esso struttura l’orientamento nel tempo. Le campane dei villaggi e le sirene delle fabbriche lanciano richiami egualmente rituali. Accanto a ricorrenze stagionali come capodanno o ferragosto, a feste civili e religiose e ad altre cadenze di calendario mostrano come il rito sia un sotterraneo, sistematico organizzatore temporale.
Oltre a queste funzioni, esso struttura le relazioni all’interno delle comunità. Il “regime di beccata” delle galline (l’ordine con cui esse accedono al cibo) ha caratteristiche rituali ed organizza la gerarchia interna del pollaio. Risponde a codificazioni precise anche lo scambio (obbligatorio) di doni tra individui e tra tribù nelle culture autoctone della Melanesia e anch’esso struttura le relazioni sociali (Mauss, 1923). Ebbe forme rituali il nonnismo nelle caserme e la goliardia nelle università, organizzando i rapporti tra i membri delle rispettive collettività. Sono molto distanti nelle forme, ma alquanto simili nelle funzioni certe consuetudini aziendali, che riguardano il passaggio di informazioni lungo la linea gerarchica, il godimento di prerogative non sostanziali (per esempio l’invito a eventi mondani) o il trasferimento di ufficio, di piano, di sede.
Tutto ciò spesso procede in parallelo con la trasmissione di conoscenze via via più precise, specifiche e in qualche caso riservate. I riti di iniziazione (particolarmente complessi e importanti quelli delle società segrete) sono la testimonianza forse più illuminante che il rito presiede a percorsi di tipo cognitivo.
Da questa sommaria panoramica il rito emerge come attività consustanziale al comportamento umano. Può nascere per l’impulso di una persona o di un gruppo (come la marcia a passo d’oca nella Germania nazista o il “sabato fascista” in Italia), ma risponde ad esigenze generali e a processi collettivi, non a convenienze private e all’arbitrio di singoli.
É sorprendente la costanza che i riti mostrano di possedere, indipendentemente dalle manipolazioni di parte, e al di sotto di apparenti rivoluzioni o di pretese riconfigurazioni.
Poche persone, per esempio, conoscono i riti antichi del calendimaggio e meno ancora sono coloro che il primo di maggio venerano la dea Flora. Tuttavia quel giorno è ancora oggi giorno di festa e viene celebrato con imponenti cerimonie pubbliche, concerti oceanici e manifestazioni di generalizzata esultanza. Analogamente, pochi conoscono il calendario dei santi e perfino tra i praticanti non sono molti coloro che venerano il santo del giorno. Nel contempo, però, il calendario si va infittendo di giornate celebrative: alla giornata della donna si aggiungono quella del bambino, del pianeta, della memoria, dell’orgoglio di genere, ecc. L’uno dopo l’altro, ogni giorno viene nuovamente consacrato ad aspetti “sacri” della vita sociale.
I riti sono atti formalizzati in modo prescrittivo, fortemente espressivi e portatori di una dimensione simbolica, nel senso che, dietro all’aspetto manifesto di celebrazione di un eroe o di una ricorrenza, di una dea o di una stagione, celebrano aspetti essenziali dell’esistenza (Pinkus, 2007). Il razionalismo ideologico che vuole sopprimere riti pagani o presepi cristiani è miopia che, al di sotto delle forme manifeste, non sa cogliere nel rito un universale attivatore di senso. La finalità forse maggiore del comportamento rituale, difatti, è quella di esaltare il senso di passaggi rilevanti della vicenda umana.
Per questa ragione è essenziale che il rito conservi il riferimento al canone mitologico da cui scaturisce. Ad illustrare tale importanza, Zoja (2003) fa rilevare che da tempi immemori l’uomo fa uso di sostanze psicotrope, ma solo in tempi recenti è passato dall’uso circoscritto all’abuso sistematico, con effetti patologici di intensità ed estensione inedite.
Quest’evoluzione viene posta in relazione con la perdita di un adeguato apparato rituale che ospiti il consumo di queste sostanze. Taluni aspetti rituali si sono spontaneamente conservati, per esempio certe cadenze temporali o situazionali (la “canna” del dopocena, lo “sballo” del sabato sera, la “riga” in compagnia, il tour dei Coffee Shop ad Amsterdam etc.), ma si è perso il riferimento a un canone mitologico forte. E pare di cogliere una differenza profonda tra chi altera ritualmente il proprio stato di coscienza, ad esempio per entrare in contatto col dio, e chi lo altera banalmente per riempire il vuoto del venerdì sera.
Intenzionalmente e non, in pubblico e in privato, nelle famiglie e nelle aziende, nei circoli sociali e nel proprio intimo, l’uomo vive di riti. Non gli è dato scegliere se aderire o meno alla natura rituale della psiche, ma attraverso il rito gli è dato cogliere il senso di momenti significativi che costellano la sua esistenza.
Preservare il fondo simbolico da cui il rito scaturisce è essenziale, affinché esso non decada in sterile stereotipia; penetrare il senso profondo che lo anima è responsabilità di chi non voglia fluttuare nel mondo sterile delle apparenze e della superficialità.
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Bibliografia
Goody J., Against “Ritual”. Loosely Structured Thoughts on a Loosely Defined Topic, in: Moore S. F., Meyeroff B. G. (a cura di), Secular ritual, Amsterdam, van Gorcum, 1977.
Leroi-Gourhan A. (1964), Le religioni della preistoria, Milano, Adelphi, 1993. Mauss M. (1923), Saggio sul dono, Torino, Einaudi, 1965.
Pinkus L., Quale ritualità di fronte al morire oggi, in: Widmann C. (a cura di), Il rito, in psicologia, patologia, terapia, Roma, Magi Edizioni, 2007.
Zoja L., Nascere non basta, iniziazione e tossicodipendenza, Milano, Raffaello cortina, 1985.