Casa Risorse UmaneCultura Poi ho fatto il prete, ma siamo rimasti amici lo stesso

Poi ho fatto il prete, ma siamo rimasti amici lo stesso

Amicizia e dintorni

da Capitale Intellettuale

Italo Giorgio Minguzzi Studioso e Docente di Impresa e Società

Il titolo riporta una “battuta” dovuta ad un Principe della Chiesa, il Cardinale Giacomo Biffi, per molti anni Arcivescovo di Bologna. La frase è riferita ad un amico imprenditore, al quale era legato da una sincera amicizia in gioventù, con cui poi si erano trovati a confrontarsi su finalità morali e di fede molto diverse, senza che questo potesse indebolire la loro amicizia.

Biffi la mette in apertura di un suo libro (il quinto evangelo), scritto da giovane ma mai ripudiato, in cui, affrontando vari temi del Vangelo offre lo spunto per due argomenti che voglio proporvi, sempre sul tema dell’amicizia.

Il primo è molto semplice e riguarda l’indispensabile necessità di non subordinare il tema dell’amicizia a ragioni di lontananza di credo, di stato economico e di natura di scelte diverse nella vita.

Per iniziare è necessario stabilire che valore vogliamo dare al concetto di amicizia. Preciso subito che non intendo solo quella che, più o meno, si reperisce sui vocabolari e che implica esclusivamente l’aspetto affettivo e la consonanza etica, forse è opportuno guardare anche ad una definizione meno enfatica. Ad esempio, penso che una buona definizione possa essere quella indicata nel Laelius de amicitia di Cicerone. Qui l’Amicizia, secondo l’autore, “dopo la sapienza, è il bene più prezioso; quel sentimento limpido e disinteressato che non nasce dalla ricerca dell’utile, ma da un’inclinazione naturale che unisce due o più persone e diviene anche nobile attività quando si allarga alla sfera pubblica, diventando la più autentica manifestazione di concordia civile che sta alla base della coesione sociale e della forza morale di un popolo.”.

Acquisito questo principio, che ritengo fondamentale, le espressioni dell’amicizia possono assumere forme diverse e misurate sulle caratteristiche delle convinzioni diverse, talora anche distanti, delle persone.

Dunque, l’amicizia si fonda sulla comprensione, sulla lealtà e sulla disponibilità. Sulla comprensione, perché non può aversi amicizia con qualcuno che non conosci almeno fino al punto di comprendere le qualità e la fondatezza dello spirito amicale della persona su cui fondare una nuova amicizia. La lealtà è sicuramente il sale dell’amicizia, se non c’è lealtà piena, non può esserci amicizia. La vita, purtroppo, spesso a causa di quelli che si definiscono amici, ci riserva più sorprese che conferme. Poi la disponibilità, nell’amicizia, è un po’ la cartina al tornasole della relazione, perché per un amico, nel momento del bisogno, c’è sempre tempo e si è sempre pronti.

Inoltre, l’amicizia rimane uno dei presupposti assoluti per tendere a una fraternità universale. Dico fraternità e non più amicizia, perché l’amicizia è sempre circoscritta ad un numero limitato di persone, né può essere diversamente, viceversa la fraternità è semplicemente considerare gli altri, tutti gli altri, come fratelli, nel senso etico del termine, per citare Papa Francesco. Ma, in fondo, rappresenta un’estensione logica del sentimento che è a base dell’amicizia, quanto meno dell’amicalità.

È probabile che il Cardinale Biffi abbia letto Cicerone sulla constatazione che la base del concetto di amicizia estesa non è solo sentimentale ma è etica. La fraternità universale era infatti definita da Biffi come “cristocentrismo cosmico”, ovviamente circoscrivendo il discorso al tema religioso, che però, nei contenuti, va bene per qualsiasi modo di pensare.

Tuttavia, gli avvenimenti che stanno succedendo nel mondo in questi tempi lasciano molti dubbi sulla reale possibilità di conseguire risultati di fratellanza estesa, ed è già difficile non perdere di vista i valori dell’amicizia, della solidarietà e del rispetto dell’altro.

Oggi l’uomo sembra preferire di agire, al massimo, nell’ambito dei rapporti associativi fondati su comportamenti pseudo amicali, cioè propedeutici alla creazione di nuove amicizie, ma in questo caso occorre usare prudenza su talune “fratellanze” che possono essere legate alle ideologie, ai costumi, alle classi, alle categorie, quando non anche al potere ed al denaro, per il modo con il quale gli aderenti si esprimono.

La fraternità, invece, nella sua definizione si rifà a un concetto molto più alto, che trascendendo i limiti delle esperienze umane, si fonda sulla concezione della comune appartenenza al mondo, quindi, a una condivisione universale delle idee e alla parità dei diritti su cui poggia la società, una forma di amicizia planetaria tra gli uomini.

Il secondo argomento nasce da una riflessione che contraddice un pensiero che alcuni ritengono di estrema importanza, e cioè la coerenza, come pregiudizio a prescindere. Sono sempre stato allarmato da quelli che affermano di non avere mai cambiato idea, quindi, di avere conservato fino alla vecchiaia le stesse idee che avevano fin da quando erano bambini.

Estremizzo, lo so, ma perché vorrei spiegare dal mio punto di vista come l’affermazione di cui discutiamo sia ideologica e non apprezzabile. L’affermazione del pensiero è bene che sia soggetta ai principi etici e ai valori morali che sottostanno alla coscienza di ognuno di noi, ma non altrettanto quando sia collegata ad un impianto ideologico che rifiuta aprioristicamente il dialogo, anche quello con il sé intimo, cioè con sé stessi.

In parole povere la coerenza non va intesa come vincolo a non cambiare mai un’idea, il che costituirebbe un difetto, ma come vincolo continuativo del pensiero collegato alla propria coscienza. Credo che l’ideologia non assoggettata alla giusta riflessione e alla maturazione soggettiva sia decisamente contrastante col concetto di amicizia.

Il secondo è più complesso: quanto ha a che vedere l’amicizia con l’interesse personale e anche reciproco nella relazione, indipendentemente dall’interesse generale?

Direi di partire da quanto diceva, nella sua indiscutibile saggezza, Aristotele: Senza amici nessuno sceglierebbe di vivere anche se possedesse tutti gli altri beni.Da qui, forse, il detto qui autem invenit illum invenit thesaurum, cioè che chi trova un amico trova un tesoro (Bibbia, Siracide 6:14). E chi non ha interesse a trovare un tesoro?

Ma torniamo ad Aristotele che, nell’Etica Nicomachea, nell’approfondire il tema portante del suo lavoro su come raggiungere la felicità e sul posto che occupano le relazioni sociali nella vita quotidiana, rivela che l’amicizia è uno scambio in cui imparare a ricevere e offrire. Cioè, tradotto in volgare: avere e dare.

Quindi per raggiungere la perfezione dell’amicizia si debbono accomunare nella relazione il piacere della condivisione, ma soprattutto avere rapporti con persone davvero d’eccezione, che restano con noi anche durante bufere e tempeste. E in tutto questo non sussiste un principio, morale e personale dell’interesse reciproco e scambievole? Aristotele, più di qualunque altro pensatore, ha elaborato il valore etico dell’amicizia.

Non si è amici per caso, l’amicizia è una scelta di vita. La definirei una scelta etica.

Basterebbe pensare ad alcune amicizie riscontrabili nella letteratura più prestigiosa per trovarne esempi davvero simbolici: Don Chisciotte e Sancio Panza di Cervantes, Achille e Patroclo di Omero, Amleto e Orazio di Shakespeare, per citare i primi che mi sono venuti in mente, e in tutti questi casi ci sono motivi di interesse che indicano le ragioni del suo valore.

Che sia la capacità di saper mantenere la fedeltà, o la speranza dell’adempimento delle promesse, o l’affetto profondo, l’amicizia non nasce dal nulla ma trova la ragione della propria esistenza in un significativo interesse determinante.

È chiaro ed evidente che non sto parlando dell’interesse materiale in senso stretto, ma di un interesse talmente motivante da far nascere fra due persone un sentimento così forte che è secondo, a mio avviso, solo all’amore. Da aggiungere, sempre in maniera transeunte, che porti anche a collegare la dichiarazione di amicizia non a un interesse di qualche genere, ma che sia relazionale fra due persone per gestire insieme la complessità delle vicende umane.

Ai nostri giorni si usa il termine “amicizia” con troppa facilità, svuotandone di fatto i contenuti, e non andando oltre il significato dello stare insieme per condividere fatti ed eventi della vita. La differenza sta dunque nel valore del rapporto, cioè nella reciprocità della ricerca della felicità comune, anche a discapito della propria singola felicità, rasentando così il sentimento dell’amore. Questo vuol dire rinunciare all’abbandono dell’altro nel momento della sua infelicità, vuol dire essere pronti al sacrificio personale per non rinunciare al soccorso dell’amico.

Amicizia vuol anche dire godere del bene dell’altro, come è ben raccontato da J.K. Rowling nella relazione amichevole fra Harry Potter e Ron Weasley, oppure del potere della relazione al di là dell’età, come è meravigliosamente narrato da Ernest Hemingway ne Il vecchio e il mare, allorché Manolin, contro il divieto genitoriale ed il rischio dell’incontro con non trascurabili difficoltà, decide di tornare a pescare con Santiago; o, ancora, fra Frodo e Sam ne Il Signore degli Anelli, in cui Sam non abbandona l’amico anche quando è stato dallo stesso allontanato.

Ecco, dunque, cos’è l’Amicizia e perché davvero un amico vale un tesoro. Un legame, o, meglio, una relazione con un’altra persona, trova la giusta risposta nel bisogno di incontrare qualcuno che ti stia accanto, in maniera durevole, e condivida nel bene e nel male il pensiero e i tuoi accadimenti per un interesse comune che deriva dall’affrontare con continuità e sincerità ciò che la vita dà o toglie, regala o sottrae, nella sua evoluzione e imprevedibilità.

Torno al punto di partenza per due ragioni, che reputo buone.

La prima è che credo che l’amicizia, se è vera, non sia neppure sottoposta a termini o decadenze. Fortunatamente non è regolata da una legge!

Se è vera, rimane, anche senza l’incontro frequente, in quel sito del cuore, forse preferirei dire dell’anima, dove sono conservate e non solo archiviate, le cose buone.

L’altro è un po’ più delicato. Nelle forme del pensiero la lontananza personale a volte potrebbe avvicinare piuttosto che allontanare; in questo caso occorre, però, una disponibilità personale all’ascolto dell’altro che, ai nostri giorni, non è particolarmente consueta.

La tendenza odierna nel confronto dei pensieri privilegia la formula della contestazione, piuttosto che quella della confutazione, nei social network in modo particolare. Ma se si riuscisse a sviluppare la capacità di passare dalla Dialettica, che poggia principalmente sull’affermazione del proprio pensiero su quello degli altri, alla Dialogica, che mira invece al confronto delle idee per conseguire un risultato comune di convinzione libera, allora la mia affermazione troverebbe ragione di essere presa in seria considerazione.

Mi scuso se di nuovo mi affido a una definizione, sicuramente indipendente, presa dalla Treccani, che spiega con chiarezza che il termine e il concetto di διαλεκτικὴ τέχνὴ, propriamente «arte dialogica», risale al V sec. a.C., a quell’ambiente socratico in cui il metodo del discutere per brevi domande e risposte fu contrapposto al sistema sofistico del lungo discorso, con cui l’oratore, adoperando ininterrottamente la sua forza di persuasione, mirava a convincere chi ascoltava. In Platone la dialettica divenne la conoscenza dei rapporti tra le idee. Riflettendo sulle difficoltà che nei riguardi della sua dottrina delle idee nascevano dalla problematica dell’eleatismo e in particolare dalla rigorosa esclusione parmenidea del non essere dall’essere, Platone trasformò quest’ultima antitesi in quella dell’«identico» e del «diverso» e considerò quale suprema conoscenza del «dialettico» quella dei rapporti di identità e diversità delle varie idee, così il concetto di dialettica rimase da allora in poi legato a quei problemi del rapporto logico fra l’identità e l’alterità, fra l’identità e la contraddizione, fra l’affermazione e la negazione, che ancor oggi costituiscono il tema della dialettica.

Naturalmente Aristotele, con il quale mi permetto di identificare il mio pensiero, non si trovò proprio del tutto d’accordo. Nella dialettica la contrapposizione delle idee serve a farne emergere una sulle altre, e ciò indipendentemente dall’oggettività del contenuto ideale, dei valori e dalla conoscenza della verità affermata. Questo prescinde dalla realtà raggiungibile con il filtro del confronto e della sintesi di pensieri conciliabili non sovrapponibili. Ciò non toglie che la visione di Platone, ancorché non interamente condivisa, affronti il tema dell’essere con indiscutibile e profonda sensibilità.

Ma tale sublime pensiero non aiuta l’uomo alla conciliazione degli argomenti, anzi, li contrappone. E la contrapposizione non aiuta alla formazione della vera amicizia, che deve essere basata sul rispetto dell’idea dell’altro. Non assuefazione, ma riconoscimento del valore di un’idea “altra”, anche se contrapposta alla propria. Spesso, chi ha delle idee, le afferma, non le discute e, nello stesso tempo, inevitabilmente, pensa sbagliate le idee dell’altro.

Tale atteggiamento non consente un approccio amichevole e disponibile. A maggior ragione, chi deve lasciar soccombere il proprio pensiero, avvierà un processo “in direzione ostinata e contraria”, direbbe Fabrizio De André, per contrapporre la propria convinzione. E in questo modo non solo non risulta favorita l’amicizia, ma sarà sconfitta. Bisogna sempre rendere prezioso il pensiero dell’altro perché sarà l’unico modo per poterlo mettere in discussione, non per prevalere, ma per arrivare ad una visione comune. Allora diventerà più facile essere, diventare o rimanere amici.

ANNO 13 N.1

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