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Spazi del lavoro: funzione ed emozione

Dalla collaborazione tra architetto e psicologo nascono spazi inarmonia con i gusti dell’utente finale

da Capitale Intellettuale

Silvia Zanichelli Architetto e Designer d’Interni

Maria Mazzali Psicanalista, Socio Apco CMC

Dino Formaggio dice: “l’Arte è tutto ciò che gli uomini chiamano Arte…”.

La responsabilità di questa affermazione viene poderosamente giustificata in tutto il testo che ne segue e che ha mutato profondamente la visione dell’arte stessa e della storia dell’uomo. È stato uno di quegli scritti che ha cambiato l’approccio alle discipline artistiche e non solo, permettendo di rivederle con un’ottica nuova, come accade quando si cambia prospettiva e saltano agli occhi posizioni inaspettate e visioni anamorfiche sorprendenti.

Questa concezione ci dà lo spunto per aprire un confronto sull’Architettura, arte primitiva per antonomasia (l’arte dell’uomo di costruirsi un riparo) e autorizzarci ad affermare che alcuni famosi critici ritengono arte manufatti, siano essi di architettura o design, che di artistico hanno solo il narcisismo soggettivo dell’autore e di chi con esso si identifica. Il mondo è pieno di orrori architettonici che appestano l’armonia ambientale, fisica ed emotiva delle città e dei luoghi in cui viviamo.

In sintonia con il sempre maggiore interesse per il benessere sul lavoro, anche la progettazione degli interni dei luoghi di lavoro si è innovata e ha dato alla luce un approccio rivoluzionario rispetto a quello usuale al quale siamo abituati: mettere il cliente al centro della progettazione. Abbandonare la sottomissione alla dittatura estetica dell’architetto consente di partire dall’utente finale, colui che vivrà gli spazi da costruire, e ricercare e seguire insieme il suo desiderio e il suo gusto.

Fino agli anni ’80 nelle aziende l’ufficio era progettato per grandi open-space con lo scopo di esercitare un’azione di controllo sull’operatività del lavoratore. Non si dava nessuna considerazione alla vivibilità del luogo. L’attenzione era concentrata sull’aspetto esteriore dell’architettura con la quale l’immagine aziendale si identificava o con la facciata del palazzo che ospitava lo studio professionale e, solo successivamente, l’interesse si è spostato dall’edificio ai suoi interni. Nonostante siano gli ambienti interni quelli dove le persone trascorrono la maggior parte del tempo, da un secolo a questa parte vige ormai la consuetudine di destinare attenzione e risorse al “contenitore” a discapito del “contenuto”.

Più tardi, dagli anni ’90, la diffusione della tecnologia ha consentito di dare l’avvio ad un processo di dislocazione delle informazioni e dello svolgimento delle mansioni. Sono stati sperimentati molti modi di delocalizzare il lavoro: dai sistemi di hot desk (pratica di non fornire una scrivania identificata, ma mettere a disposizione una serie di postazioni che ciascuno occupa secondo necessità; si narra di un imprenditore che ne avesse predisposta una in meno del numero dei dipendenti come esortazione ad arrivare presto in ufficio) all’hotelling (posti assegnati su prenotazione) al più famoso e dibattuto telelavoro. Oggi nella stragrande maggioranza dei casi il luogo e la scrivania per svolgere le proprie mansioni non sono più indispensabili, pensiamo ai manager che fanno riunioni negli aeroporti oppure, senza neppure incontrarsi, comunicano a distanza. Nonostante ciò, la territorialità è un bisogno istintivo, il contatto sociale è importante e queste forme di lavoro nomade non sono riuscite a fare presa sui più. Il luogo fisico dello scambio è fulcro dell’appartenenza a un gruppo e dell’immagine professionale di sé. Le persone amano un luogo in cui tornare, familiare, si pensi a ciò che gli americani chiamano homing from work, adattare l’ufficio personalizzandolo come una casa, con scrivanie guarnite di foto, oggettini, piante verdi, indice di una necessità che va al di là dei semplici bisogni funzionali. Lo spazio non deve quindi più solo riflettere la funzione: l’attenzione della progettazione è passata dalle “macchine per abitare” degli anni ’20 di Le Corbusier alla richiesta estetica e al design emozionale e si prefigge il compito di rendere gli ambienti di lavoro emotivamente graditi a chi ci deve lavorare per otto e più ore al giorno per molti giorni della propria vita.

Partendo quindi dalla reale necessità funzionale degli interni, collegata inevitabilmente alle mansioni che il lavoratore deve svolgere, ciò che rimane libero da obblighi contestuali, attraverso questa nuova modalità, viene scelto in base alle preferenze emotive dell’imprenditore o di chi per lui. Non sarà pertanto l’architetto a proporre a sua immagine e somiglianza la distribuzione degli spazi, le finiture e l’arredamento, ma si attuerà un’intervista approfondita al cliente sui suoi gusti estetici e sui colori che in armonia con il contesto generale possano dargli maggior familiarità e relax nella frequentazione quotidiana degli spazi! Questo prodotto costituisce un’assoluta novità nel panorama della progettazione e viene realizzato attraverso la collaborazione attenta e competente dello psicologo e dell’architetto che si mettono a disposizione del cliente tramite un’intervista strutturata dalla quale emergono gli spunti essenziali per progettare in armonia con i gusti del cliente stesso sui colori, i materiali e la foggia degli arredi. Studi a tal proposito supportano questa metodologia innovativa che trae forza anche dalle più antiche tradizioni culturali e filosofiche orientali.

ambienti

I colori, le forme e i materiali hanno sul nostro organismo effetti diversi: alcuni sono universali perché dipendono dal nostro sistema neurologico, altri sono legati alla cultura e altri ancora sono strettamente soggettivi, in quanto dipendono dalle esperienze e dai gusti. Ciascuno di noi riceve un territorio precostituito fatto di spazi, arredamenti, colori, profumi e odori nei quali cresce e nei quali assorbe emozioni, sperimenta se stesso e i propri sentimenti.

Ci sono colori infatti che ci restano nel cuore ed altri che non abbiamo avuto la possibilità di provare a causa della loro condanna all’esilio perenne perché non piacevano  ai genitori, all’architetto o non erano di moda in quegli anni. Perché togliersi la possibilità di accedere ai propri gusti profondi? Attraverso questo nuovo approccio progettuale si potrà godere del piacere di stare per molte ore in un ambiente gradevole, organizzato, accogliente che facilita lo svolgimento delle proprie mansioni e dei propri compiti nella concentrazione e nell’umore più disteso! Come dice Dostoevskij la bellezza salva la vita e portare la bellezza nel quotidiano può diventare un atto artistico nonché salutare e, perché no, un atto creativo e responsabile.

ANNO 1 N.1

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