Ruben Razzante Docente di Diritto dell’Informazione all’Università Cattolica di Milano e alla Lumsa di Roma
Nel mare magnum del web i nostri dati personali rappresentano una risorsa preziosissima per tutte quelle imprese che sulla raccolta e l’aggregazione delle informazioni sensibili, fondano il loro business. Le informazioni in Rete su ciascuno di noi, ormai, incarnano la valuta dell’attuale mercato digitale a tal punto che c’è chi le ha già ribattezzate “il petrolio” dell’economia digitale. Internet, insomma, è certamente un fondamentale strumento di innovazione e di crescita. Ma occorre che il suo utilizzo avvenga nel rispetto dei diritti degli utenti.
E sul tema dei diritti in Rete, purtroppo, in Italia regna ancora tanta confusione. Molti scambiano il diritto all’oblio – per esempio – come garanzia di impunità e scappatoia per rifarsi una verginità in rete. Ma non è così. I siti informativi hanno il diritto-dovere di archiviare tutte le notizie, anche quelle non più attuali, che, all’occorrenza, devono poter essere rilette da chiunque. Allo stesso tempo, però, chi dalla Rete subisce un danno – come è stato per Tiziana Cantone, la ragazza napoletana che si è tolta la vita dopo che un suo video hard era finito sul web senza il suo consenso – ha il diritto di ottenere la rimozione di contenuti lesivi.
Ed è proprio sulla permanenza in Rete di informazioni che ci riguardano che si gioca il nostro spazio di libertà, tutela dell’identità digitale e autodeterminazione informatica. Oggi la tecnologia consente di raccogliere una quantità sterminata di dati, il che aumenta i rischi per i diritti degli individui e per il nostro “io elettronico”. E anche quando viene chiesta la cancellazione o la non tracciabilità nei motori di ricerca di alcune notizie, esse, come un fiume carsico, riaffiorano.
Il diritto all’oblio è – appunto – una delle frontiere mobili della tutela di quei diritti e si sta affermando progressivamente in Europa, pur tra mille incognite e difficoltà applicative.
C’è chi lo definisce semplicisticamente “diritto ad essere dimenticati”, chi lo interpreta come una peculiare espressione del diritto alla riservatezza, chi come diritto a non essere facilmente trovati (to not be found) o non essere facilmente visti (to not be seen), chi ancora lo declina come diritto alla contestualizzazione dei dati in Rete o come diritto all’identità personale, e quindi come “diritto a vedersi rappresentati in modo da riflettere la propria attuale dimensione personale e sociale e, di conseguenza, a non essere rappresentati in maniera non più corrispondente a quella”.
Altra definizione calzante è quella che ne dà l’attuale Presidente dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali, Antonello Soro: «…garanzia di libertà dallo stigma della memoria eterna della Rete; memoria sociale selettiva, legata alla funzione pubblica della notizia e al rispetto dell’identità personale intesa non come risultato ma come processo» poiché l’identità digitale di ciascuno di noi non è meno “personale” di quella reale e i diritti devono godere della stessa tutela on-line e off-line.
Potremmo infine correttamente inquadrarlo come diritto a non restare indeterminatamente esposti ai danni ulteriori che la reiterata pubblicazione di una notizia può arrecare all’onore e alla reputazione: una sorta di antidoto contro la “gogna mediatica perpetua”. A meno che, a seguito di eventi sopravvenuti, il fatto precedente ritorni d’attualità e rinasca un interesse pubblico a conoscerlo.
Il concetto di diritto all’oblio rivoluziona dunque l’uso della memoria collettiva. Si è rovesciata la prospettiva, considerato che un tempo l’oblio costituiva una pena (damnatio memoriae), mentre oggi la pena è l’attualizzazione perpetua del passato, resa normale della tecnologie dell’informazione e della comunicazione. «L’informazione immessa nella Rete è resa accessibile dai motori di ricerca così: immediatamente; universalmente (all’intero popolo dei naviganti); per sempre (la memoria di Internet è illimitata); inesorabilmente (a prescindere dalle finalità della ricerca)». (1).
La proiezione dell’identità dell’individuo nell’infosfera e nel cyber-spazio sfugge al suo potere di autodeterminazione perché equivale al profilo ricostruito con l’aggregazione della molteplicità di dati personali disseminati nella Rete.
Il tema della memoria è indissolubilmente agganciato alla pervasività del virtuale e alla “indistruttibilità” di alcune informazioni, essendo il cyberspazio “un mare infinito dove galleggiano innumerevoli iceberg in cui ai contenuti visibili si alternano milioni di bit sommersi, apparentemente invisibili ma sempre pronti a riemergere” (2)
Diverso il caso del diritto all’oblio applicato alla cronaca. Se infatti l’eventuale rimozione produce un vulnus al nostro diritto a essere informati, la notizia deve rimanere reperibile attraverso i motori di ricerca. E se, per esempio, una vicenda giudiziaria si trascina per anni ma non è ancora giunta al suo naturale epilogo (sentenza definitiva, archiviazione, ecc.), il giornalista ha tutto il diritto di richiamarla alla memoria dell’opinione pubblica perché esiste un interesse pubblico a conoscerne tutti i successivi sviluppi. Semmai, i media on line sono sempre e comunque tenuti ad aggiornare i resoconti di quella vicenda processuale fino alla sua ultima evoluzione.
Una notizia diffusa sul web, infatti, può provocare effetti a catena difficili da contenere. Non a caso Il “Testo Unico della deontologia giornalistica”, entrato in vigore il 3 febbraio 2016, ha introdotto anche il riferimento ai social network, sia come fonti di informazione sia come strumento di manifestazione del pensiero anche per i giornalisti, che pure sono chiamati a utilizzarlo con cautela e nel rispetto dei diritti della personalità altrui.
Il bilanciamento tra privacy e diritto all’informazione deve quindi compiersi sul terreno dell’essenzialità, che consiste nel pubblicare solo particolari di interesse pubblico in grado di soddisfare il diritto dei cittadini a essere informati. Il trattamento dei dati personali e sensibili da parte dei giornalisti deve ispirarsi ai principi contenuti nel codice deontologico del 1998, che è diventato il primo allegato al “Testo unico della deontologia”.
I giornalisti, inoltre, devono usare correttamente i social network e non considerarli zone franche nelle quali poter sfogare i propri istinti verso i colleghi o verso il proprio datore di lavoro. Tenendo sempre bene in mente che la loro notorietà si lega anche al loro ruolo giornalistico e che, anche quando si trovano sui social network, quel ruolo condiziona la loro visibilità.
Non a caso, le più recenti sentenze in materia di diffamazione online realizzano una sostanziale equiparazione tra diffamazione a mezzo stampa e diffamazione in Rete, inquadrabile come “diffamazione con altro mezzo di pubblicità”, a norma dell’art. 595 del codice penale. Significa che offendere a mezzo internet è altrettanto grave quanto offendere su un giornale o una televisione. Anzi, in una sentenza della Cassazione del 2014 è stato sancito un principio ancora più innovativo: in ragione dell’indicizzazione dei motori di ricerca, le notizie in Rete possono diffamare in maniera ancora più devastante rispetto a quelle pubblicate nei media tradizionali.
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(1) R. Messinetti, Contro una memoria persecutoria, in Formiche del luglio 2014, p.76.
(2) A. Colella, L’impossibile libertà, in Formiche del luglio 2014, p.79.