Carlo del Sante Consulente Qualità e Sicurezza
Il termine “shale gas”, in italiano “gas da argille” o anche impropriamente “gas di scisto”, viene comunemente usato per indicare il tipo di giacimento non convenzionale da cui viene prodotto questo gas, intrappolato nelle microporosità della roccia. L’argilla è scarsamente permeabile, ragion per cui questi giacimenti non possono essere messi in produzione spontanea, come avviene per quelli convenzionali, ma necessitano di trattamenti particolari per aumentarne artificialmente la permeabilità, ovvero: una prima perforazione verticale di tipo tradizionale per raggiungere lo strato di rocce (posto generalmente fra i 2000 e i 4000 metri di profondità), seguita da una perforazione orizzontale (“directional drilling”) ed infine da un fratturazione idraulica (“fracking”). L’acqua utilizzata per effettuare tale fratturazione deve essere tuttavia addizionata con agenti chimici (antiossidanti, emulsionanti, detergenti) per circa lo 0,5% allo scopo di ridurre l’attrito ed eliminare eventuali microrganismi presenti.
RISCHI AMBIENTALI
La tecnica è efficace ma piuttosto invasiva: si stima che il recupero di gas da questo tipo di giacimento corrisponda a circa il 30% del totale di gas presente in situ, contro il 70% di recupero nei giacimenti convenzionali: è dunque necessario perforare un numero molto più consistente di pozzi per ottenere una quantità di gas naturale che permetta l’economicità dell’investimento produttivo. Inoltre, vi sono una serie di rischi ambientali che la rendono controversa e sottoutilizzata rispetto alle potenzialità.
RISCHIO CHIMICO
La quantità di acqua necessaria per il fracking dipende dalle dimensioni dell’area, ma è di solito dell’ordine dei milioni di litri: venendo recuperata solo al 50-60% circa, migliaia di litri di agenti chimici non degradabili e potenzialmente inquinanti vengono introdotti nel sottosuolo. Il rischio chimico è comunque contenuto dal fatto che la fratturazione idraulica avviene ad una profondità ben maggiore rispetto a quella del normale livello delle falde acquifere utilizzate dall’uomo, rendendo altamente improbabili eventuali contaminazioni alle falde stesse.
RISCHIO SISMICO
L’operazione di fratturazione idraulica è una potenziale causa di incremento del rischio sismico anche in aree tradizionalmente non interessate. L’entità di tale incremento risulta però alquanto controversa, non essendoci uno storico adeguato. La legislazione americana ha comunque vietato di perforare a meno di 500 piedi (150 metri circa) da eventuali impianti nucleari, una distanza ritenuta niente altro che simbolica.
EFFETTO SERRA
La produzione di gas da argille durante le prime fasi di estrazione libera in atmosfera gas metano, uno dei principali gas responsabili dell’effetto serra. È difficile tuttavia quantificare l’impatto reale del gas di scisto sull’effetto serra, mancando ad oggi dati storici sul lungo periodo.
RUMORE
L’elevata rumorosità della tecnica di fracking richiede ampi spazi vuoti, rendendone problematica l’applicazione in zone densamente popolate.
NUOVI SCENARI GEO-POLITICI
GLI STATI UNITI
Il consumatore numero uno di barili di greggio al mondo vede nello shale gas una grande opportunità per svincolarsi dalla dipendenza economica e politica dai paesi produttori di petrolio: non a caso sta sempre più divincolandosi dagli impegni politici e militari assunti in Iraq e in Afghanistan, sta ridimensionando le pretese nei confronti dell’Iran, sta dimostrandosi sostanzialmente indifferente alla crisi siriana. È a causa dello shale gas se in Nord America il prezzo del petrolio è più basso rispetto all’Europa: negli USA il riferimento è dato dalle quotazioni del WTI, che da più di un anno si mantengono circa venti dollari inferiori a quelle del Brent europeo. Petrolio e gas non sono immediatamente sostituibili: serve tempo perché i consumatori inizino a impiegare gas per le autovetture o per il riscaldamento domestico, tuttavia la produzione di shale gas è passata nell’ultimo decennio da 10 a 140 miliardi di metri cubi, ovvero circa il 23% del fabbisogno di gas naturale annuale del paese. L’aumento della produzione ha pertanto avvicinato il paese all’indipendenza energetica e fatto crollare i prezzi del metano a livello mondiale, dato che gli USA da importatori di metano ne diventeranno esportatori nel prossimo decennio. La legislazione prevede inoltre che chi possiede un terreno possieda anche tutto ciò che via sta sotto, lasciando così via libera a chi vuole avventurarsi nella estrazione.
LA CINA
Le indagine geologiche svolte ad oggi individuano nella Cina il primo produttore potenziale di shale gas al mondo. Entrare nel mercato dello shale gas avrebbe conseguenze rilevantissime per la Cina: non solo perché gli USA, principale concorrente geopolitico ed economico di Pechino, sembrano destinati all’indipendenza energetica proprio grazie allo sfruttamento delle risorse domestiche di shale gas, ma anche perché fare progressi con lo shale gas significherebbe ridurre drasticamente l’utilizzo del carbone, che copre quasi l’80 per cento della produzione cinese e che comporta gravi conseguenze a livello di inquinamento. Altro vantaggio fondamentale sarebbe quello di ridurre la dipendenza dall’estero: secondo la EIA le importazioni di petrolio estero della Cina a settembre erano arrivate a 6,3 milioni di barili al giorno; questa tendenza dovrebbe proseguire per tutto il 2014, facendo diventare la Cina il primo importatore di petrolio. La riduzione della dipendenza dalle importazioni di petrolio che passa per lo sviluppo dello shale (assieme alle forniture di gas e petrolio convenzionale in arrivo dalla Russia e dal Sud-Est asiatico) è una questione vitale per la Cina. Garantire il costante e regolare afflusso degli idrocarburi necessari per alimentare la crescita cinese è una questione che riguarda direttamente la legittimazione interna e la stabilità del partito comunista e della nomenklatura. L’unico limite al momento per lo shale gas sembra essere la mancanza di know-how e la scarsa disponibilità d’acqua, soprattutto nella zona ritenuta più ricca, il nord-ovest del paese.
LA RUSSIA
La Russia, forte della propria posizione di fornitore preferenziale di energia ai paesi europei, rimane al momento alla finestra: potenzialmente avrebbe la possibilità di sfruttare lo shale gas, disponendo di giacimenti e spazi enormi, ma preferisce evitare di immettere nuovo gas sul mercato, diminuendo ulteriormente i prezzi. Ha comunque avviato studi in collaborazione con le principali compagnie europee, fra cui l’ENI, per un possibile sfruttamento futuro dei propri immensi giacimenti.
L’EUROPA
L’entusiasmo dei paesi europei per lo shale gas è andato scemando rapidamente, essendo una tecnica estremamente problematica per aree densamente popolate: nel 2012 Francia, Bulgaria, Romania e Repubblica Ceca hanno sospeso lo sfruttamento dei propri giacimenti per motivi di impatto ambientale, facendo pressione per una interruzione in tutta l’Unione europea, ingenerando così i timori della Polonia, le cui riserve sono le più ingenti dell’intera Unione.
La Francia, forte della propria produzione di energia nucleare, è stata il primo paese al mondo, immediatamente seguita dalla Bulgaria, a proibire in modo permanente l’impiego della tecnica di fratturazione idraulica in tutto il suo territorio. La fratturazione è ormai contestata anche dalla Germania, in particolare dal suo ministro dell’ambiente Altmaier, ma nessuna posizione ufficiale è stata presa sinora dalla UE.
In attesa di ulteriori sviluppi, Polonia e Regno Unito sembrano ad oggi gli unici paesi seriamente intenzionati a procedere.
E L’ITALIA?
L’Italia come al solito non fa sistema: da un lato l’ENI si pone tecnicamente all’avanguardia, avviando studi ed impianti di estrazione di shale gas in tutto il mondo (Russia, Cina, Polonia e Ucraina), dall’altro nessuna risposta arriva dal sistema politico, che al momento attende che siano gli altri paesi europei a decidere. La recente inaugurazione a Baku del progetto TPA, il nuovo corridoio di collegamento energetico fra il mar Caspio e la Puglia, alla quale hanno partecipato sia il presidente del consiglio Letta sia il ministro degli esteri Bonino testimonia come al momento l’Italia preferisca muoversi su metodologie collaudate ed evitare il rischio di avventurarsi in tecnologie ancora poco sicure e controverse.
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