Di Massimo Franchi Consulente Apco, Direttore Capitale Intellettuale
Gli attuali Stati competono su scala mondiale attraverso il commercio, molto meno costoso in termini di denaro e di vite umane, rispetto alla guerra, e molto più redditizio in termini di utile: indici come il PIL, il PIL pro capite, la bilancia commerciale, il numero di imprese, indicano chiaramente quanto è potente uno Stato. I moderni eserciti, con la fine delle ideologie, si sono trasformati in forze di reazione rapida; composti da professionisti, soldati di mestiere addestrati e ben pagati, sono utilizzati per intervenire e dispiegarsi tempestivamente nelle aree calde del pianeta per la difesa di oleodotti, gasdotti, miniere, cioè di tutte le risorse che occorrono per mantenere in vita la potenza commerciale di uno Stato. Dunque, è sempre guerra ma nascosta da una pax commerciale sotto l’egida del WTO e dei paesi di cui è espressione. Una guerra che vede la proprietà statale delle imprese ritenute strategiche, magari esercitata in modo velato tramite la golden share, ed un forte supporto da parte di tutti i paesi ai campioni nazionali che gareggiano negli appalti internazionali (indipendentemente dal regime politico che li bandisce). Una guerra nella quale il fondo sovrano diventa uno strumento utilizzato per conquistare l’avversario che purtroppo, con la cassaforte vuota in seguito alla crisi finanziaria ed economica, apre le porte del castello costretto a vendere i gioielli di famiglia per ripianare i debiti.
Un commercio, o forse meglio una guerra commerciale, che vede nella moderna multinazionale (spesso con un fatturato superiore al Pil di molti paesi del globo) il nuovo attore in grado di movimentare, grazie allo sviluppo tecnologico, immense somme di denaro in frazioni di secondo e senza lasciare traccia. La mobilità del denaro è diventata uno dei fattori fondamentali in grado di ridimensionare il ruolo delle autorità pubbliche che, a fatica, riescono ad imporre regole, ad effettuare controlli ed a perseguire i criminali. I sociologi indicano come l’uomo, quale animale sociale,
stia cambiando e divenendo meno interessato alla cosa pubblica, alla partecipazione politica (in questo l’Italia è contro corrente visto l’alto numero di persone che vivono di politica) e più dedito agli interessi privati i quali possono avere un rendimento maggiore in termini monetari. Anche gli istinti umani si stanno assopendo senza indicarci, o forse ce lo indicano ma vogliamo far finta di nulla, dove va a finire l’aggressività. L’uso della forza è ormai deputato solo agli Stati ed ai professionisti. Con la scomparsa della leva obbligatoria sono riemersi i mercenari, oggi chiamati contractors o P.M.C./P.S.C, organizzati come aziende di servizi ad altissima professionalità. Il loro ruolo è multiplo, al soldo di governi e di compagnie multinazionali private, per la protezione di infrastrutture, ad esempio pozzi petroliferi ed oleodotti, oppure per l’impiego in conflitti a bassa intensità. Pare che il giro di affari di questo settore, in continua crescita, rappresenti c.a. 100 miliardi di dollari annui. Questo tipo di azienda è senza confini ed opera su scala mondiale, ovunque sia necessario. Per i governi a volte è meglio impiegare i contractors: in caso di perdite di vite umane la reazione dell’opinione pubblica è ben diversa rispetto all’impatto che si ha con la morte di un giovane soldato dell’esercito regolare, idealista e patriota con tanto di famiglia che lo aspetta a casa. Anche per una compagnia privata l’impiego di questi professionisti rappresenta un indubbio vantaggio a protezione del business.
Efficaci, invisibili, silenziosi e flessibili sono facilmente dispiegabili, ovunque sia necessario, con competenze che permettono di effettuare attività di spionaggio e contro spionaggio. Rappresentano l’ultimo guardiano a protezione del conto economico. Può anche capitare che si vada oltre, degenerando in strategie di sviluppo che possono avere effetti brutali, magari come decisione singola di manager che operano con il solo fine del loro tornaconto personale. Lo sviluppo del commercio prende il via dal 1944 quando, in seno all’Onu, nacquero il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale con scopi diversi (accordi di Bretton Woods). La Banca aveva il compito di prestare ai paesi, con reddito medio basso, capitali a lungo termine destinati al finanziamento di opere infrastrutturali. È da notare che lo statuto della Banca Mondiale, articolo XIV, le impediva
di occuparsi della ricostruzione europea. Gli americani attraverso il Piano Marshall, nato con lo scopo di coprire i disavanzi dei paesi europei per permettere la ripresa produttiva ed evitare colpi di mano di natura marxista, estesero la loro supervisione sul vecchio continente attraverso l’erogazione di 640 miliardi di dollari attualizzati al 1999. Il Fondo doveva impiegare il proprio capitale, costituito dalle quote dei paesi sottoscrittori, per ristabilire l’equilibrio esterno dei paesi che vi facevano ricorso (fino
al 1970 il finanziamento riguardava i temporanei squilibri della bilancia dei pagamenti mentre in seguito si concentrò sui paesi in via di sviluppo colpiti da crisi finanziarie). Tra le istituzioni create per migliorare il commercio dobbiamo ricordare anche la Ceca (Comunità Europea del Carbone e dell’acciaio), nata nel 1951. Si trattò di un organismo sovranazionale sorto da un’idea dei francesi, cui partecipò fin da subito l’Italia, che realizzò un mercato comune per il carbone e l’acciaio, rimuovendo ogni tipo
di vincolo e realizzando l’interesse di tutti i partecipanti. Il Piano Marshall fu molto importante, nonostante alcune critiche di neo imperialismo americano, perché sostenne i redditi europei e diede il via al multilateralismo tra paesi che erano stati dilaniati dal secondo conflitto mondiale; processo che portò, nel 1957 a Roma, alla firma dei trattati istitutivi della CEE (Comunità Economica Europea) e dell’EURATOM (Comunità Europea dell’energia Atomica).
Con la terza globalizzazione, partita negli anni ’70 – ’80 del Novecento, venne data maggiore libertà ai movimenti di capitale e la finanza privata iniziò a riassumere il ruolo avuto prima dei due conflitti mondiali attraverso il quale la circolazione rende sempre più sfuggente la proprietà, secondo quanto previsto ed indicato da B.Constant. Nel 1995 nasce l’Organizzazione Mondiale per il Commercio, WTO, al termine del negoziato multilaterale di liberalizzazione degli scambi, l’Uruguay Round. Il
WTO dimostra di possedere un apparato normativo ed un impianto istituzionale capaci di creare incentivi al mantenimento degli impegni per i paesi partecipanti.
Nonostante i maggiori fattori democratici del WTO, rispetto alla Banca ed al Fondo, si crea una rottura sulla conduzione delle negoziazioni relative alle liberalizzazioni tra paesi avanzati ed i paesi in via di sviluppo i quali richiedono un rafforzamento delle tutele, negoziati di Doha Round, per la realizzazione di un sistema di commercio più libero e sensibile ai poveri.
È da notare che i paesi in via di sviluppo non costituiscono un fronte comune: Cina, India e Brasile hanno esigenze e strategie diverse che passano dall’accettazione sostanziale delle condizioni per la Cina, alla maggior sensibilità per le riforme agricole ed i servizi dell’India, per arrivare alla riduzione dei dazi industriali e dei sussidi agricoli per i paesi avanzati richiesta dal Brasile.
Al WTO aderiscono 153 paesi che rappresentano oltre il 97% del commercio mondiale.
I nuovi scenari
Un mondo nel quale il commercio ha un ruolo centrale è un mondo che dipende da tre forze principali:
- il capitalismo e la tendenza all’estensione su nuovi
mercati da conquistare; - le innovazioni tecnologiche;
- la volontà politica dei grandi paesi.
Questo sistema produce vincenti e perdenti, anche analizzandolo solo in termini di scambi commerciali. Il flusso dei beni dai paesi del Sud ai paesi del Nord del mondo è cambiato: se nel 1800 i lavoratori emigravano dall’Europa all’America, i prodotti agricoli e minerari prendevano la via opposta. Il modificarsi degli scambi ebbe un impatto sui redditi e provocò richiami protezionisti. Oggi, l’offshoring (cioè la dimensione internazionale dell’outsourcing) ingigantisce ancor di più vantaggi e svantaggi aumentando l’incertezza riguardo ai cambiamenti indotti dalla globalizzazione dei commerci: incertezza che ha ricadute pesanti sulla fascia della popolazione in maggiore difficoltà rendendo più difficile la risposta dei governi. I processi di liberalizzazione dei commerci avanzano attraverso trattative settoriali tra paesi avanzati e paesi in via di sviluppo. Europa, Usa e Giappone sono molto cauti nel liberalizzare i beni agricoli e nel ridurre le sovvenzioni a sostegno del settore. Gli Usa, almeno prima dell’era Obama, si opponevano all’eliminazione protezionista di alcuni comparti industriali ed al cambiamento delle norme sull’immigrazione. La Cina, in modo particolare, è un paese in via di sviluppo solo sulla carta rappresentando ormai la
seconda economia al mondo a supporto della quale impiega strumenti convenzionali e non.
I negoziati vedono richiedere, da parte dei paesi avanzati, maggiori standard lavorativi ed ambientali, norme più severe sugli investimenti esteri, ecc. Temi che però non sono giudicati prioritari dai paesi in via di sviluppo che temono limitazioni ai loro progetti industriali. Gli accordi siglati, sia in via bilaterale che multilaterale, sono certamente positivi anche se difficilmente contengono le spinte sperequative tipiche del mercato globalizzato.
Il benessere economico di uno Stato è considerato strategico e da difendere a qualsiasi costo perché alla base dello svolgimento regolare della vita democratica: naturalmente questo discorso vale anche per l’Italia.
La Repubblica Italiana ha recentemente riformato e modernizzato gli apparati di Intelligence, ora diventati agenzie, con la legge 124/2007. La riforma ha attribuito la responsabilità politica del delicato settore al Presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana, il quale può demandare tutti i compiti all’Autorità delegata. Senza toccare argomenti relativi all’organizzazione delle strutture ed al sistema dei controlli vigente dobbiamo ricordare che tra i compiti specifici dell’AISE, Agenzia informazioni e sicurezza esterna, “rientrano l’attività in materia di contro proliferazione concernenti materiali strategici e quelle informazioni per la sicurezza, al di fuori del territorio nazionale, a protezione degli interessi politici, militari, economici,
scientifici ed industriali dell’Italia.” Anche l’AISI, Agenzia informazioni e sicurezza interna, “svolge attività di informazione per la sicurezza, all’interno del territorio nazionale, a protezione degli interessi politici, militari, economici, scientifici ed industriali dell’Italia1.
La guerra economica è sempre stata praticata precedendo quella classica. Pensiamo alle guerre commerciali anglotedesche alla base dei timori descritti nella principale opera di Norman Angell, La Grande Illusione, quelle in corso tra l’Unione Europea e la Cina riguardo alle nuove tecnologie, ai marchi ed ai brevetti. Fino alla fine del secondo conflitto mondiale il termine guerra era però utilizzato per il dispiego militare e la pressione economica era una delle attività a supporto della nazione mobilitata. Cosa si intende operativamente per guerra economica? Semplicemente l’attività, messa in atto da uno Stato o anche da comparti industriali finanziari che agiscono con mandato più o meno formalizzato, di falsificazione di denaro, campagne stampa, azioni diplomatiche, azioni finanziarie, boicottaggio di reti distributive, guerre tariffarie e doganali, per arrivare al più conosciuto embargo, molto applicato, e al dumping. Come si può notare gli strumenti sono diversi con forti impatti: pensiamo solo che tramite azioni in ambito finanziario, ad esempio operazioni sui tassi di interesse o sui cambi, è
possibile piegare l’economia di un paese andando a condizionare la domanda aggregata ed il relativo equilibrio sociale.
La Cina è una potenza che ben sa operare nel campo della guerra economica. La contraffazione delle merci ed il sostanziale aggiramento dei brevetti sono parte dei tanti modi di operare in questo campo; anche gli USA utilizzano loro regole protezioniste.
Altre tecniche che si sono sviluppate negli ultimi anni sono: “gli attentati ad impianti industriali e reti di trasporti e telecomunicazioni, guerra batteriologica con finalità economiche, rapimenti mirati, pirateria marittima, aerea o informatica, il bombardamento informatico”2.
Altra importante connessione economico militare è stata l’applicazione dei principi del taylorismo, in campo socio organizzativo, che vedevano il primato della razionalità su qualsiasi componente di tipo irrazionale. Gli USA, negli anni ’40 del Novecento, hanno dimostrato di applicare il taylorismo come fattore organizzativo dominante attraverso una macchina statale, perfettamente oliata, nella quale il ruolo della persona è stato assimilato a quello di un pezzo di ricambio. La stessa Guerra Fredda è stata una corsa al primato economico, agli armamenti – ricordiamo il costo monetario delle Guerre Stellari di Ronald Reagan – ai conflitti scaturiti a livello regionale.
Il petrolio, forse il principale agente di innesco, meriterebbe di essere trattato in un articolo dedicato: argomento vasto e presente in ogni area di conflittualità, coperto da fiumi di parole, è stato la ragione principale dell’”operazione Ajax” con la quale gli americani deposero Mossadeq (1953) in Iran. Accanto al petrolio abbiamo avuto, nel tempo, deposizioni di governi a causa del rame, del gas, dei diamanti, ecc. Tutte queste materie prime sono state pagate col dollaro, imposto come moneta unica per gli scambi, e solo da pochi anni con un reale concorrente, l’euro. Il dollaro, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, rappresentano le basi dell’egemonia statunitense in campo economico, che sicuramente è stata preferibile all’alternativa fallimentare rappresentata dall’URSS, ma che comunque va riletta in modo critico.
I piani di progresso per i paesi in via di sviluppo attuati dalle diverse agenzie sovranazionali hanno spinto i governi, spesso corrotti e non realmente democratici, ad utilizzare le risorse per altri scopi facendo crescere il debito pubblico e creando dipendenza. Il crollo del muro di Berlino ha aperto nuovi scenari, e nuovo lavoro. Il mondo dell’Intelligence, che dipende direttamente dai governi, ha spostato l’attenzione su altri obiettivi, superando le paure del possibile scontro monetario dollaro-euro che sembrava delinearsi nell’ultimo decennio del Novecento e nei primi anni del Duemila. Gli ambiti di operazioni attuali riguardano:
• il settore bancario e le fusioni tra istituti che danno vita
a player mondiali con pericoli di concentrazione;
• il controllo delle telecomunicazioni, che ora comprendono anche internet;
• il controllo delle materie prime.
Già la guerra del Kippur, del 1973, determinò un cambiamento del capitalismo internazionale nel momento in cui stava partendo la terza ondata di globalizzazione. Un cambiamento dal quale nacquero i fondi offshore e si moltiplicò, quasi all’infinito, la circolazione del capitale. Capitale che iniziò a sostenere il debito pubblico dei paesi occidentali creando un legame che ha minato, in alcuni casi, l’indipendenza strategica degli stessi. L’interazione dei capitali è complessa e indefinita come sono complessi gli strumenti finanziari utilizzati. Il risultato degli ultimi trent’anni del Novecento è stato una concentrazione di capitali, in mano di soggetti e cordate finanziarie internazionali, che ha dato il via ad un nuovo scontro per il controllo delle principali banche, delle reti di comunicazione e, per ultimo, delle terre rare.
Questo scontro è conflitto tra sistemi paese, non solo tra aziende, e tocca tutti gli ambiti: quello fiscale, del segreto bancario, dei metalli preziosi (terre rare), dell’energia, della disponibilità di superficie terrestre (Africa), delle monete, dell’informazione, ecc. È una lotta per la sopravvivenza economica, che diventa poi fisica per la popolazione, nella quale ci sono molti giocatori, più o meno visibili e con vari interessi.
Di fatto il ruolo della NATO (North Atlantic Treaty Organization) è mutato. Alleanza nata nel 1949 con l’obiettivo di creare un ombrello difensivo collettivo per Europa e Usa, contro il blocco comunista rappresentato dall’URSS, definì che in caso di attacco ad un paese membro gli alleati sarebbero dovuti intervenire per ripristinare la sicurezza. Con la fine della Guerra Fredda il ruolo della NATO, che pareva essere destinata alla pensione, permane quale vigile poliziotto dell’area politico-economica dei paesi membri ma aggiunge anche la funzione di, unico e vero, braccio armato dell’ONU. Dopo l’11 settembre 2001 si enfatizza il compito, senza confini, di lotta al terrorismo internazionale. Alleanza militare, ma con un enorme impatto economico anche in campo industriale: dotata di un bilancio annuale cospicuo, oltre 2 miliardi di euro, la NATO promuove progetti industriali tra paesi aderenti con forti ricadute sull’occupazione. Tutto il comparto del sistema difesa, molto spesso il vero detentore dell’innovazione tecnologica di un paese, dipende dai bilanci dei dicasteri della difesa, delle attività produttive, dei progetti in ambito NATO e dal bilancio degli USA. Se non esistesse l’industria del sistema difesa, indipendentemente dai pareri politici, i paesi occidentali perderebbero parte del loro vantaggio competitivo, della loro ricchezza e dei loro posti di lavoro. Basti pensare al settore marittimo nel quale la produzione delle navi da trasporto si è ormai spostata ad Est, causa il basso costo della manodopera, mentre l’industria occidentale ha mantenuto la cantieristica militare e le grandi navi da crociera (prodotte dagli stessi cantieri fornitori del comparto difesa).
Per esempio Finmeccanica, importante impresa italiana e leader mondiale del settore difesa, nel 2009 impiegava oltre 73.0003
dipendenti con un azionariato composto dal Ministero dell’economia italiano, 30,2%, da investitori istituzionali, 47,0%, e da investitori individuali, 22,8%.
Un dato molto interessante è quello della provenienza degli investitori istituzionali: Italia, solo il 12,3%, Nord America, 43,3%, UK e Irlanda, 23,0%, resto dell’Europa, 19,1%. Nord America, UK e Irlanda rappresentano oltre il 60% degli investitori istituzionali per un’azienda che vede una posizione primaria nell’ambito delle commesse per il sistema difensivo/offensivo americano. Azionariato e clienti americani: un abbinamento che fa pensare, soprattutto in relazione alla crisi libica del 2011 ed all’ingresso delle società di quel paese nella stanza dei bottoni di Finmeccanica.
La megadiplomazia
La globalizzazione del mondo ha avuto ed avrà, sempre di più, un impatto sulle organizzazioni sociali che genererà dinamiche umane nuove ed inaspettate: si parla della megadiplomazia, “l’unica risposta al futuro del governo globale sarà quella che prenderà la forma di un bricolage di movimenti, esperimenti di governo, network, regolamenti soft e tutti gli altri sistemi che possono emergere a livello
locale, regionale e globale”4.
Partendo da una definizione dell’impresa come ecosistema: “ogni azienda rappresenta un ecosistema di relazioni umane, autonomo e specifico, con caratteristiche comunicative singolari, uniche e irripetibili, dipendenti dal tipo di stili relazionali dei singoli individui che la compongono e soggetta a repentini mutamenti dovuti all’aumento o alla sostituzione e/o alla diminuzione delle risorse umane”5 , possiamo proiettare l’immagine dei soggetti economici del futuro che avranno lingue, colore, religione, tradizioni estremamente diversi, pur operando all’interno dei singoli Stati: cambierà lo stile relazionale dell’individuo perché cambierà l’individuo stesso.
Si creeranno, con l’accesso di altri paesi ad un commercio globale senza limiti, delle sovrastrutture multinazionali complesse composte da personale di nazionalità differente che non faranno più l’interesse del gruppo di azionisti, e del paese di origine, ma produrranno una molteplicità di centri, di potere economico e d’influenza, sfuggenti.
In questa analisi non possiamo non tenere conto delle spinte rivoluzionarie del blocco arabo, di tipo civico culturale ma con impatti certamente economici. Spinte che rischiano di tradire la richiesta di libertà iniziale, fatta soprattutto dai giovani, e che fanno pensare con paura, a quello che sarà il dopo. Parliamo di ciò che è avvenuto in Egitto, Tunisia e Libia. Come ben ricorda Pierluigi Battista: “Rivoluzioni che partirono nel nome dei diritti, della libertà e della democrazia si pervertirono nel loro contrario” ed ancora ”come aveva già capito nel pieno della tempesta il liberale Benjamin Constant, nel fanatismo giacobino, nella deriva terroristica del ’93, nella ghigliottina con le tricoteuses in piazza, e nello sterminio di ogni dissenso”6.
Certamente le richieste di libertà e di liberazione dagli oppressori devono essere appoggiate, occorre anche che si vigili sul futuro di quei paesi nei quali avvengono, per evitare che il dopo sia nelle mani di una dittatura del partito o di un gruppo fondamentalista che schiaccerà ogni forma di dissenso e di minoranza.
“La tirannia poggia sempre su un mito portante, su una convinzione interiore data da una forza archetipa”7.
Ripercorrendo la storia dell’umanità il primo mito cui pensiamo è quello dell’eroe, rispolverato dal fascismo e dal nazismo, e base di quasi tutti i totalitarismi. Ai giorni nostri i miti sembrano non attaccare più perché la valutazione della vita è in termini di conto economico, profitti e perdite. Solo una parte del mondo musulmano, ancora legato alla religione, sembra immune dal bilancio d’esercizio. Oggi si crede “ai miti che si presentano come fatti e come verità, in una sorta di competizione neo darwiniana”8 . Il rischio, come diceva Freud, è che ciascuno di noi “metta in scena Edipo il Tiranno, che non vedeva il mito che viveva e per il quale moriva”9.
Dall’antichità, ispirandoci a Ermes o Mercurio, dobbiamo trovare il collegamento al mondo odierno nel quale il mito risiede nei valori dei profitti e delle perdite. Ermes è il Dio dei messaggi, delle comunicazioni e degli scambi commerciali. È un Dio che mente (come a volte mentono i commercianti!) ed è ladro: “nel mercato tutti siamo debitori a Ermes/Mercurio?”10. È un Dio che potrebbe indicare la radice antica della nuova società.
Continuamente si legge di multinazionali che affamano interi paesi, in modo più o meno palese, e di interventi di peace keeping e peace enforcement volti a mascherare fini più subdoli. Quello che molti governanti occidentali faticano a capire è che ogni popolo ha solide radici, tradizioni e valori in difesa dei quali è disposto a sacrificare tutto. La dottrina americana, conquistare cuori e menti di una popolazione, si è rivelata inutile, o non così efficace, ed ha disseminato lungo la strada una marea di vittime, dal Vietnam all’Iraq.
Gli USA, ieri in Vietnam ed oggi in Iraq, sono impantanati in interventi su scala globale. Impiegano nel teatro bellico a supporto dell’esercito, ufficiale o privato che sia, una forza navale senza eguali che, secondo la dottrina del Seapower, offre anche l’ombrello alle operazioni economiche di ricostruzione delle diverse aree. L’intervento non è mai solo bellico, ma è dell’intero sistema industriale del paese.
Quando si parla di guerra, anche nel presente, occorre partire da Karl Von Clausewitz in quanto la classe dirigente di molti paesi occidentali, in modo particolare i vertici militari, ha studiato e continua a studiare questo militare e stratega.
Clausewitz (1780-1831), considerato il massimo esperto militare di tutti i tempi, ha sostenuto che “la guerra si accosta al commercio ancor più della politica e che il commercio è un conflitto di attività e di interessi su larga scala”11 e che “la guerra non è soltanto un atto politico, ma un vero istrumento politico, una prosecuzione dell’attività politica, una sua
continuazione con altri mezzi”12.
L’esperienza asiatica e lo sviluppo, senza precedenti e su base commerciale industriale, di alcuni paesi avvalorano invece le tesi di Benjamin Constant orientate verso la cooperazione tra i popoli. Il percorso della Cina, di graduale apertura alle libertà individuali, conferma che esiste una strada diversa nella quale, forse, il commercio rappresenta il minore dei mali.
La deriva può arrivare dalla bottom line dei bilanci, ragione ultima di estrema efficienza a qualunque prezzo. Il business non deve essere il fine principale ma lo strumento attraverso il quale sono garantite le libertà, individuali e politiche. Il dramma è quando il business diventa potere e limite per qualcuno. Non possiamo fare finta di nulla: l’economia è anche sicurezza nazionale e nazionalismo. Se però un’azienda arriva a disporre di un potere maggiore di un governo nazionale e lo usa per soggiogare i paesi meno sviluppati, disturbando la politica estera del paese di appartenenza o non rispettando i diritti umani e le leggi penali, allora deve essere frenata. È per questo che i servizi di informazione, con il loro ruolo di osservatori attenti, assumono un’importanza fondamentale e preventiva all’interno di ogni paese, permettendo di mantenere la conflittualità sotto controllo e non facendola sfociare in inutile spargimento di sangue.
”L’Impero dell’Economia”13 è differente da tutti gli altri che lo hanno preceduto: governa con mezzi psicologici. L’Economia determina chi è incluso o escluso, è “il luogo dove oggi risiede l’inconscio e dove il bisogno di analisi psicologica è maggiore”14. Se l’Economia diventa teologia, cioè il rituale che unisce tutti i popoli con un solo culto, occorre capire dove sta il suo potere, quello che può limitare le libertà individuali. Forse l’esercizio della libertà politica rappresenta il baluardo contro i nuovi pericoli di limitazione delle libertà personali. ■
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- (1) Legge 124/2007 della Repubblica Italiana.
- (2) Come funzionano i servizi segreti, di Aldo Giannulli, Ponte alle Grazie editore, pag. 222.
- (3) www.finmeccanica.it/Corporate/IT/Corporate/Investor_Relations/Dati_Finanziari/index.sdo
- (4) Come si governa il mondo, di Parag Khanna, Fazi Editore, pag. 311.
- (5) I vizi capitali ed il clima aziendale, di Maria Grazia Mazzali, rivista Capitale Intellettuale, Anno 2 N 1, pag 4.
- (6) La libertà tradita. Se le rivoluzioni creano nuovi tiranni, di Pierluigi Battista, Corriere della Sera 10 febbraio 2011, pag 10.
- (7) Il potere di James Hillman, Edizioni Bur, pag. 219.
- (8) Il potere di James Hillman, Edizioni Bur, pag. 219.
- (9) Il potere di James Hillman, Edizioni Bur, pag. 220.
- (10) Il potere di James Hillman, Edizioni Bur, pag. 265.
- (11) Della guerra, di Clausewitz, tr. it. Mondadori, 1970, pag 130.
- (12) Pensieri sulla guerra di Clausewitz, edizioni Bit, pag 32.
- (13) Il potere di James Hillman, Edizioni Bur, pag. 14.
- (14) Il potere di James Hillman, Edizioni Bur, pag. 15.