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La genesi dell’economia globalizzata

La globalizzazione si comprende attraverso la conoscenza delle principali teorie sociologiche, storiche, politologiche e geopolitiche che sono alla base del concetto di economia di potenza e degli scontri economici verificatisi dalla rivoluzione industriale in avanti

da Capitale Intellettuale

Giuseppe Gagliano – Presidente CESTUDEC (Centro Studi Strategici Carlo De Cristoforis)

Per comprendere la genesi dell’economia globalizzata così come la si conosce dopo gli anni ’80 e soprattutto in seguito alla caduta dell’URSS, risulta essenziale citare la “teorizzazione dell’economia-mondo” di Fernand Braudel, visione che permette di chiarire l’evoluzione degli scontri economici che scandiscono il periodo che va dalla rivoluzione industriale alla globalizzazione.

Secondo Braudel, un’economia-mondo è una “parte di mondo economicamente autonoma, in grado di sussistere da sola per l’essenziale, i cui legami e scambi interni conferiscono una certa unità organica”. L’economia-mondo è una struttura molto gerarchica, provvista di:

  • un centro industrializzato dove confluiscono e da dove ripartono informazioni, capitali, mercanzie e lavoratori;
  • una semiperiferia composta da zone abbastanza sviluppate, ma nonostante tutto poste in secondo piano dal punto di vista dello sviluppo economico;
  • un’enorme periferia arretrata dove si trovano le risorse facilmente sfruttabili e necessarie alla costruzione del centro.

 

Secondo Immanuel Wallerstein, in tre occasioni nel corso della storia ci sono state le condizioni per un’economia-mondo capitalista: nel XVII secolo, per le Province Unite; nel XIX secolo, per il Regno Unito; e a metà del XX secolo, per gli Stati Uniti. Lo stesso autore teorizza una distinzione tra “economia-mondo” e “impero-mondo”, fondamentale per comprendere i diversi meccanismi di dominio economico, che in quell’epoca animarono il capitalismo, e la guerra economica. Partendo dalla definizione di sistema-mondo, inteso come ogni rete di scambio che implica una divisione del lavoro e che si espande su uno spazio plurinazionale, lo studioso ne individua due tipi: l’impero-mondo e l’economia-mondo. La differenza sta nella loro configurazione politica: nel primo caso, la divisione internazionale del lavoro si espande in uno spazio statale unico, mentre nel secondo caso si espande in uno spazio interstatale. Nell’impero-mondo c’è un desiderio politico di assorbimento e di sottomissione universale, di unificazione territoriale e politica, di dipendenza e di rifiuto dell’altro, considerato non come un collaboratore o un soggetto di diritto, ma come un semplice oggetto da catturare. In altre parole, nel primo caso la natura delle relazioni tra i diversi elementi del sistema è politica e militare prima di essere economica. Invece, le relazioni tra i diversi elementi dell’economia-mondo (città Stati, Stati-nazione, imperi), sono principalmente di natura economica. In questo modo il dominio politico, giustificato dal “fardello dell’uomo bianco”, lascia il posto all’egemonia commerciale, forma di dominio non territoriale e meno aggressiva.

La peculiarità del sistema-mondo europeo del XX secolo e dell’economia-mondo britannica è il loro carattere capitalista. Sempre secondo Wallerstein, il termine “capitalismo” designa un sistema strutturalmente orientato verso l’accumulo illimitato di capitale. Dal carattere capitalista del sistema-mondo europeo ha origine la sua vocazione universale, vale a dire imperialista, che è la propensione a estendersi nello spazio globale approfittando della sua eterogeneità. Nel secolo scorso, nel caso di ogni sistema-mondo, impero o economia-mondo, il dominio della periferia mirava ad assicurarsi sotto tutti i punti di vista il controllo delle materie prime e dei mercati. La dinamica imperialista del sistema-mondo europeo consentiva quindi di far tornare allo Stato permanente le risorse e le importazioni per il centro e la semiperiferia, dove erano poi trasformate e ridistribuite al fine di facilitare l’industrializzazione e la costruzione accelerata del sistema-mondo. Per prima cosa, gli europei si spartirono le terre e il sottosuolo; il rendimento economico delle colonie si basava perlopiù sullo sfruttamento della manodopera indigena, con una gestione delle colonie in funzione delle necessità dei colonizzatori. Talvolta, fu necessaria la costruzione o la modernizzazione delle infrastrutture (ferrovie, strade, ponti, porti) per assicurare l’indirizzamento delle ricchezze verso le metropoli. Per quanto riguarda lo sfruttamento delle risorse minerarie, certe colonie completavano utilmente quelle metropolitane (il carbone tonchinese, il ferro indiano o algerino), mentre altre supplivano le proprie mancanze (fosfati tunisini, nichel caledoniano, rame congolese). Le materie grezze si esportavano sempre verso la metropoli, senza modificare il prodotto sul luogo di estrazione, per evitare la comparsa di concorrenti sul mercato coloniale. Così, mentre le colonie fornivano materie grezze (agricole o minerarie), le metropoli fornivano prodotti trasformati.

Il controllo politico delle risorse e dei mercati nell’impero-mondo innesta delle conquiste territoriali e delle guerre coloniali, mentre il controllo economico esercitato dall’economia-mondo si manifesta attraverso delle conquiste commerciali che danno origine a guerre della stessa natura. Entrambi i tipi di controllo nella loro espressione più avanzata portano a uno scontro diretto, violento e militare. Conflitti di questo tipo, sia interstatali sia all’interno di uno stesso Stato, sono del resto ricorrenti nel XIX secolo e all’inizio del XX e culminano nelle due guerre mondiali, che vanno analizzate come lo scontro tra le conquiste politiche, che seguono una logica imperialista, e le conquiste commerciali dell’economia-mondo di dominio britannico. Per esempio, la Prima Guerra Mondiale succede a una serie di conflitti, tra il 1876 e il 1912, per la spartizione dell’Africa: la Germania, che desiderava costruire il proprio impero, si vede costretta a spostare delle linee di confine. Alcuni studiosi, tra cui Bernard Gerbier, usano l’espressione “imperialismo geopolitico” per definire la dinamica capitalista di questo periodo. Secondo Gerbier, la conquista permanente di risorse secondo una logica imperialista, una volta conclusa la spartizione del mondo, avrebbe innescato delle guerre imperialiste tra potenze occidentali.

Per comprendere bene questo concetto, è perciò necessario partire dalle teorie di Wallerstein per distinguere la natura delle diverse economie europee dominanti. Storicamente, la Germania come pure il Giappone, soprattutto all’inizio del XX secolo, tendono verso l’impero-mondo in virtù del loro modo politico e militare di espansione, che deriva dal concetto di spazio vitale. Ne è conferma lo studio della geopolitica di questi due Paesi; per esempio il Giappone dell’era Meiji imita l’Occidente: si industrializza, istituisce un parlamento, costruisce una flotta e un impero coloniale. Le mire imperialiste derivano dal sentimento di essere attorniato da tre giganti: la Russia (URSS), gli Stati Uniti e la Cina; non potendo affrontare le prime due, nel 1931 il Giappone invade la terza, stravolta da una guerra civile, e conquista la Manciuria. Queste ambizioni imperialiste incontrano l’ostilità degli Stati Uniti, che non volevano rinunciare all’accesso all’Asia dall’oceano Pacifico.

Per l’analisi dell’ambizione imperialista della Germania si può far riferimento alla scuola di geopolitica tedesca del secolo XIX e inizio del XX, rappresentata da F. Ratzel e K. Haushofer, secondo i quali è insito nella natura degli Stati svilupparsi in competizione con gli Stati vicini, per ragioni perlopiù territoriali. Da questo sviluppo deriva la lotta per lo spazio (“Kampf um Raum”) e la rivendicazione di uno “spazio vitale”, declinato nelle teorie pangermaniche in un’area di espansione corrispondente all’Europa centrale. La Germania doveva perciò raggiungere lo status di potenza allargando la sua presenza in tutti i punti strategici e appropriandosi delle ricchezze e delle risorse del suo spazio vitale e delle colonie.

In definitiva, per la Germania e per il Giappone la potenza risiedeva nel controllo di elementi fondamentali come i territori, gli uomini e le materie prime. Vista la povertà del loro territorio nazionale e il loro isolamento politico e geografico, il loro accrescimento di potenza poteva soltanto avvenire tramite una dinamica imperialista.

L’Impero britannico, dal canto suo, rientrava nella definizione di economia-mondo, perché la sua dinamica di potenza ha ben presto subito una trasformazione, illustrando perfettamente la logica di evoluzione dei sistemi-mondo. Quest’impero seguiva, in un primo tempo, delle ambizioni territoriali mirate a colonizzare con la forza dei territori esterni e a sfruttare le ricchezze per poi passare, in un secondo tempo, a un interesse di tipo principalmente commerciale e combinato con il potere politico.

Il fine principale delle politiche imperialiste inglesi era quello di favorire l’acquisizione del territorio straniero non solo per ottenere le materie prime, ma anche per fornire dei mercati veri o potenziali ai fabbricanti inglesi. Sotto l’effetto del cambiamento radicale di prospettiva economica introdotto dal padre del liberalismo Adam Smith, la dinamica imperialista dell’Impero britannico fu però soggetta a un cambiamento decisivo, dalla logica di conquista territoriale (necessariamente politicizzata) alla logica di conquista commerciale, ovvero di controllo attraverso il mercato. Il libero scambio divenne una norma ammessa in tutto l’Impero e furono quindi eliminate tutte le restrizioni coloniali, come ad esempio i diritti doganali. Comprendendo i benefici che poteva trarre dalla modernizzazione delle sue colonie, l’Impero britannico sviluppò delle politiche tese a stimolare gli investimenti coloniali, dando quindi inizio alle grandi opere nell’Africa nera: strutture di irrigazione, porti e strade. Questi imperi divennero i rifugi dei capitali europei: furono allora firmati trattati commerciali tra la Gran Bretagna e i Paesi latinoamericani, la Turchia, il Marocco, il Siam, il Giappone e le isole dei Mari del Sud.

In definitiva, attraverso la costruzione dell’economia-mondo sotto l’influenza britannica si disegnavano le prime strategie economiche di accrescimento della potenza. Grazie alle numerose relazioni economiche con gli Stati che gravitavano all’interno e all’esterno della sua economia-mondo, la Gran Bretagna creò una zona di libero scambio in cui regnava il liberalismo e dove il mercato fu istituzionalizzato fino a raggiungere lo status “di mezzo di pacificazione” delle relazioni internazionali e di sviluppo delle nazioni che vi partecipavano. L’Impero britannico ricevette dei grandi benefici da questo sistema, poiché essendo il suo l’unico centro di potenza, era in grado di influenzare la circolazione dei capitali, delle mercanzie e degli uomini. Forte della sua posizione egemonica, il centro dell’economia-mondo, Londra, poteva definire o persino imporre i termini dello scambio a proprio vantaggio. Così, tra il 1840 e il 1860, il commercio tra l’Inghilterra e il resto del mondo triplicò: gli industriali inglesi esportarono i loro beni su imbarcazioni inglesi, finanziate da assicurazioni e banche inglesi. Il rapporto tra il prezzo dell’esportazione e dell’importazione crebbe del 10% in favore della Gran Bretagna tra il 1870 e il 1914. Tali fattori di crescita consentirono all’Inghilterra di esercitare il proprio dominio nei Paesi in via di industrializzazione, di essere la prima potenza marittima e soprattutto di controllare nel 1901 quasi il 25% del mondo. Questo cambiamento nel modo di conquistare avvenne perché la logica imperialista (militare e verticale) si trasformò in una logica di egemonia economica, che è la capacità, per un’unità politica, di esercitare la propria sovranità effettiva sulle società politiche straniere senza controllarle formalmente. Tale trasformazione farà dire a Benjamin Constant che la guerra è pulsione selvaggia mentre il commercio è calcolo civilizzato.

La conquista dei mercati per l’Impero britannico divenne quindi una leva di potenza per lo Stato e la guerra commerciale, che è la sua forma più estrema, diventò allora un mezzo di coercizione per imporre la volontà economica. Per imporre i loro prodotti sui mercati del Medio Oriente e dell’Asia orientale, i britannici instituirono la “politica della scappatoia”, che culminò durante il blocco del porto di Alessandria da parte della Royal Navy tra il 1840-1841 e durante le due Guerre dell’oppio che schierarono la Cina contro la Gran Bretagna, e in seguito la Cina contro una coalizione di Paesi occidentali. Le Guerre dell’oppio furono causate dalla Gran Bretagna, che mirava a esportare l’oppio prodotto in India verso la Cina. Il Regno Unito sconfisse la Cina, costringendola ad accettare l’apertura di alcuni porti al commercio e a cedere Hong Kong, che divenne il principale centro di stoccaggio dell’oppio proveniente dall’India.

Da questi esempi risulta evidente come l’imperialismo geopolitico porti a uno scontro delle logiche di conquista in cui già si trovano i bacilli della natura geoeconomica dell’imperialismo allo stadio attuale del capitalismo. Avviene quindi un taglio decisivo nella storia del concetto di guerra economica, poiché la dipendenza ha cambiato senso: l’economia, nel senso di potenza, subordina a mano a mano la politica e la sfera militare e l’economia-potenza non è strutturata dall’ideologia, ma la diffonde, allo stesso titolo della cultura, e la strumentalizza. Robert Gilpin, autore realista di War and Change in World Politics e partigiano dell’equilibrio unipolare, aveva identificato questo cambiamento: secondo le sue teorie, la potenza economica si fonda soprattutto sui cambiamenti tecnologici ed economici e meno sulla distribuzione delle capacità militari. Queste ultime, nel caso di una potenza predominante come l’Impero britannico, si basano sulle forze produttive che costituiscono il prerequisito materiale sine qua non delle ambizioni egemoniche di tale impero, ambizioni mantenute, tra l’altro, grazie all’istituzione di norme che regolano l’equilibrio esistente a proprio vantaggio. In altre parole, la potenza di una nazione era una conseguenza diretta della sua crescita economica. In altri termini, secondo questo studioso, la potenza è il prodotto dell’espansione economica e quindi un sistema economico in declino causerà ineluttabilmente la sparizione della potenza.

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ANNO 6 N.1

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