Rodolfo Sabbadini Psicologo, Direttore della Scuola di Counselling dell’Istituto Torinese di Analisi Transazionale, Condirettore della Rivista Tecniche Conversazionali, Direttore scientifico del Laboratorio di Psicologia e Psicoterapia di Torino.
Oltre vent’anni fa, in uno dei miei primi libri (1993), richiamavo un concetto base della fisica quantistica, il principio di indeterminazione di Heisenberg, per il quale quanto succede intorno a noi non è sempre leggibile in termini di causa – effetto e segnalavo come, sempre secondo la quantistica (più precisamente secondo la cosiddetta interpretazione di Copenaghen), “ogni volta che si fa un’osservazione le proprietà del sistema mutano” (Wolf, 1991). In sostanza, si dice che un evento, finché non diventa un oggetto di osservazione da parte di qualcuno, non è altro che una probabilità: è l’osservatore che, guardandolo, attualizza il fenomeno facendo assumere ad esso rilevanza fisica. E ciò ci porterebbe a convenire sull’opportunità di discutere esclusivamente intorno a ciò che può essere visto.
Oggi queste tematiche sono state richiamate dalle più recenti ed avanzate ricerche che il Conversazionalismo sta conducendo sul rapporto tra riduzionismo ed estensionismo (Rivista Tecniche Conversazionali, 2014), ma anche da filoni di pensiero molto lontani da quello conversazionale, qual è la neurobiologia interpersonale di D. Siegel (2014).
Tali indicatori parrebbero motivare il venir meno di molte certezze che sostenevano il nostro agire quotidiano.
D’altra parte, oggi, nelle prospettive di futuro delle persone, la fiducia, cioè quell’atteggiamento positivo verso gli altri e verso sé stessi, che deriva da una valutazione favorevole di fatti e relazioni, e che induce sicurezza e tranquillità, sta cedendo spazio al suo contrario, alla diffidenza: la diffidenza verso tutti i riferimenti – culturali, politici, economici, religiosi e professionali – che sembrano essere venuti meno alle loro promesse.
è diffusa la diffidenza verso i politici, additati come imbelli o corrotti; verso le banche, paragonate a squali impegnate ad alimentare sé stesse piuttosto che a svolgere il loro ruolo istituzionale; verso la medicina, sospettata di dipendere dalle multinazionali farmaceutiche; verso la stampa, giudicata al servizio della politica e dei poteri forti; verso la chiesa, attraversata da scandali inconcepibili solo fino a qualche tempo fa. Altri esempi si potrebbero portare.
La diffidenza, come principio informatore dell’azione, induce un nuovo atteggiamento mentale anche verso coloro che potrebbero rappresentare un riferimento professionale per la gestione dei problemi personali. Tale atteggiamento è caratterizzato dal rifiuto di accogliere soluzioni e strategie derivanti dalle conoscenze (le “teorie”) che essi ci propongono, pretendendo di applicarle alla nostra realtà nello stesso modo in cui sono applicate a realtà diverse. Di conseguenza, si tende piuttosto a valorizzare la verifica personale diretta e, in forza di essa, ad accertare l’efficacia delle azioni esclusivamente in un ambito operativo che possa essere monitorato direttamente e costantemente.
La progressiva invasione della diffidenza e la ritirata della fiducia recano, inoltre, pessimismo nelle proiezioni temporali, intendendo con ciò non solo il timore per quanto potrà accadere domani, ma anche il dubbio che sia funzionale programmare un futuro a lungo o medio termine.
A questo proposito, Robert Nozick (1987) ha ben evidenziato la tendenza dell’uomo di oggi ad assumere solo impegni “che non impegnano”, revocabili, riformulabili, non definitivi, non vincolanti: i no – binding commitments che derivano, appunto, dalla mancanza di riferimenti stabili, capaci di promuovere e sostenere condotte prevedibili, stabili nel tempo.
D’altra parte l’incertezza nel futuro, che deriva dalla sfiducia che sussista un’attendibile relazione causa – effetto tra l’azione di oggi e la conseguenza di domani, porta le persone a compiere scelte sulla base di proiezioni probabilistiche, nelle quali la componente intuitiva, soggettiva, contingente, ha un ruolo spesso determinante (Silver, 2013) .
Come abbiamo detto, la consulenza, e specialmente una consulenza che assegni un ruolo strategico all’azione dell’uomo, non può più pretendere di ricondurre fattispecie – soggettive e di contesto – molto specifiche, a teorizzazioni, e a sperimentazioni tecniche e metodologiche, concepite in luoghi e tempi diversi, con riferimento ad oggetti di lavoro diversi.
Come ha ben evidenziato Rita Fioravanzo (2013), l’azione dell’uomo oggi non può più essere oggetto di un approccio che si sviluppa prevalentemente attraverso operazioni di “normalizzazione, proceduralizzazione, standardizzazione”, in un’ottica riduzionistica che promuove la “sicurezza, la difesa, la garanzia”.
L’affrancamento dalle certezze e dalle garanzie pone in capo alle persone – il consulente e il cliente – la responsabilità della scelta e dell’incertezza, in un contesto sociale, economico, produttivo, politico e scientifico che si dimostra sempre meno affidabile.
È in questo scenario che la nozione di giudizio di pratica del pragmatismo americano può acquisire nuova attualità e rappresentare un interessante riferimento operativo (Dewey, 2008).
Per giudizio di pratica intendiamo un processo che si sviluppa nella forma della risposta ad un problema che emerge nel corso dell’esperienza, impedendone lo sviluppo. Esso si colloca nella specifica e concreta situazione in cui il problema si rivela.
Il carattere problematico di tale situazione, pertanto, non apparterrà alla dimensione soggettiva -incertezza, dubbio, timore, riconducibili strategicamente alla dimensione psichica – ma costituirà un tratto oggettivo, pubblicamente accertabile, da parte di ogni osservatore esterno, e l’adeguatezza delle azioni proposte per la soluzione del problema potrà essere condivisa sulla base di una, semplice ma imprescindibile, verifica pratica di efficacia basata sulla sperimentazione di una sequenza logica di azioni.
Il consulente e il cliente collaborano entrambi attivamente per accogliere dall’universo dei dati disponibili quelli che giudicano indispensabili o utili per strutturare un percorso logico che – prendendo le mosse dalla condivisione dei termini del problema – li condurrà all’esito auspicato, tenendo presente che la definizione del problema, e della sua possibile soluzione, derivano anch’essi da scelte e quindi sono configurabili, a tutti gli effetti, come un prodotto parziale del processo logico.
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Bibliografia
- Wolf F.A. (1991) “Universi paralleli”, Geo, Milano.
- AA.VV. (2014) in Rivista Tecniche Conversazionali, Tecniche Conversazionali, XXVI, 51, Aprile www.tecnicheconversazionali.it .
- Dewey J. (2008) Logica sperimentale. Teoria naturalistica della conoscenza e del pensiero, Quodlibet, Macerata.
- Fioravanzo R. (2014) “Riduzionismo ed estensionismo. Dibattito”, Tecniche Conversazionali, XXVI, 51, Aprile www.tecnicheconversazionali.it.
- Nozick R. (1987) Spiegazioni filosofiche, Il Saggiatore, Milano.
- Sabbadini R. (1993) “Professionistattore”, Centro Scientifico, Torino.
- Siegel D. (2014) Mappe per la mente. Guida alla neurobiologia interpersonale, Cortina Raffaello, Milano.
- Silver N. (2013) Il segnale e il rumore, Fandango Libri.