Andrea Mantovi docente di Approfondimenti di Microeconomics presso il Dipartimento di Economia dell’Università di Parma, Dottore di ricerca in Fisica
Il ruolo essenziale degli investimenti per la continuità e prosperità delle imprese, pubbliche o private, e dei relativi portatori di interesse – stakeholder – è legato, come noto, all’inevitabile deperimento del capitale installato, ed ai continui cambiamenti dell’ambiente economico in cui le imprese operano, tanto dal lato della domanda quanto dell’offerta. La complessità di tali dinamiche richiede un linguaggio adeguato per poterne rappresentare gli elementi cruciali, i cosiddetti value driver. Le strategie di investimento descritte da opzioni reali e teoria dei giochi rappresentano probabilmente la prospettiva più avanzata a tale riguardo.
Come noto, il capital budgeting tradizionale è strutturato sulla regola DCF – discounted cash flow – secondo cui il valore di un investimento si quantifica nella somma dei valori attuali dei flussi di cassa attesi nel futuro. La coerenza di tale regola è testimoniata dalla sua applicazione “universale”, dalla contabilità alle scienze attuariali, dalla tecnica bancaria alla macroeconomia. Ciò detto, negli ultimi due decenni la scienza manageriale ha conquistato nuovi orizzonti per una vision strategica sul valore della flessibilità operativa nelle opzioni di investimento.
Non è necessario studiare economia per apprezzare il valore della flessibilità. La quotidianità ci insegna che la possibilità di rimodulare velocemente – e a costi contenuti – i programmi di lavoro è un vantaggio rilevante. Ad un livello più avanzato, il modello lean sviluppato in Toyota[1] ha dimostrato nei fatti gli straordinari risultati che possono scaturire dalla gestione sapiente della flessibilità operativa. Analogamente, la flessibilità della progettazione modulare è un valore da tempo riconosciuto in campo industriale. Il problema essenziale è che il futuro è intrinsecamente incerto – da cui ad esempio la rilevanza della contrattualistica – e sapersi adattare velocemente ai mutamenti può rivelarsi cruciale, anche negli investimenti.
Uno sguardo illuminante sul significato delle opzioni reali ci viene direttamente dall’Harvard Business Review del Settembre 1998, attraverso la metafora del giardinaggio coniata da Timothy Luehrman. Un giardiniere giornalmente visita le sue colture, monitorandone lo sviluppo differenziato, nella metafora, i potenziali investimenti. Alcune crescono più velocemente, altre meno, alcune si sviluppano appieno, altre avvizziscono. Il passaggio dalla potenzialità alla attualità avviene con un graduale disvelarsi delle informazioni rilevanti; scegliere da principio quali frutti – progetti – saranno da cogliere è una scelta miope: è col progressivo manifestarsi delle reali condizioni – della domanda, dei competitor, e di sinergia con i progetti già avviati – che si può configurare una scelta ottimale, la cosiddetta best response. È proprio tale prospettiva di ottimizzazione dell’investimento, basata sulla gestione attiva dei progetti e sul sapiente utilizzo delle sempre nuove informazioni, che costituisce il progresso fondamentale rispetto alla classica regola DCF, che al contrario presuppone una rigidità operativa stabilita ab initio: “In financial terms, a business strategy is much more like a series of options than a series of static cash flows” – Luehrman, p. 90. Anche i migliori manuali di corporate finance, si veda ad esempio Brealey e Myers, 2003, riconoscono ormai la rilevanza delle opzioni reali.
L’apparato matematico sviluppato per descrivere le opzioni reali è sofisticato, e in larga misura analogo a quello utilizzato per valutare le opzioni put e call trattate sui mercati finanziari – in una serie di “varianti” – dagli anni settanta. Pur non essendo trattate su mercati strutturati, anche le opzioni reali contemplano un sottostante – ad esempio, il prezzo di mercato di un determinato prodotto – che varia nel tempo, e da cui dipende il valore del progetto in esame. In questo senso una opzione è un derivato, nel senso che il suo valore deriva, tramite un preciso algoritmo, da quello del sottostante. Si identifica inoltre un exercise price, cioè il costo dell’investimento, il cui esercizio ottimale richiede di massimizzarne il rendimento, aspettando – e magari coadiuvando – il realizzarsi di determinate condizioni. Anche da tali semplici considerazioni si può intuire perché l’incertezza ha valore: quando si possiede la flessibilità sufficiente per aspettare, o magari facilitare, il realizzarsi delle condizioni migliori, si può arrivare alla scelta di investimento ottimale; corrispondentemente, la volatilità aumenta il valore delle opzioni finanziarie, come dalla celebre formula di Black e Scholes.
Dunque, Luehrman illustra uno spazio delle opzioni a due dimensioni, il rendimento dell’investimento – value to cost – e la sua volatilità; l’appartenenza del progetto ad una delle regioni identifica la strategia da seguire, che potrebbe essere quella di investire immediatamente, rimandare la decisione, o scartarla; si veda anche Smit e Trigeorgis, 2004, p. 75. In effetti, una delle prospettive più avanzate del risk management contemporaneo – vedi Damodaran, 2009 – riguarda la gestione del cosiddetto upside risk, cioè, per così dire, del “lato buono” dell’incertezza.
Gli aspetti strategici dei problemi di investimento, d’altra parte, non sono limitati alla identificazione delle best response alle condizioni ambientali di cui sopra; anche le condizioni competitive giocano un ruolo chiave nella profittabilità di un investimento, sia nel breve che nel lungo periodo – si pensi al tipico esempio dei carmaker impegnati nel lancio di nuovi modelli, che devono tenere conto tanto del ciclo economico quanto delle interazioni tra i nuovi modelli in competizione. A tale riguardo, la Teoria dei Giochi e l’equilibrio di Nash[2] definiscono l’ambiente concettuale in cui l’investimento flessibile competitivo viene a configurarsi.
Tale approccio è una recente conquista della scienza manageriale – Smit e Trigeorgis, 2004 – a cavallo tra gli ambienti professionali e accademici. Già gli studenti del primo anno di economia fanno la conoscenza di uno dei modelli strategici – giochi – fondamentali, il dilemma del prigioniero. Ogni giocatore ha diverse strategie a disposizione, ed il suo risultato, o payoff, dipende dall’incrocio delle strategie dei giocatori. In tale schema, le opzioni reali definiscono il calcolo dei payoff per i problemi di investimento in cui le strategie sono quelle di agenti economici che competono su tali investimenti; si pensi ad esempio a grandi imprese che competono in R&S per arrivare primi ad un brevetto, o ad imprese di dimensioni medie che competono sulla ristrutturazione della catena del valore. Si stabilisce quindi una profonda connessione tra i concetti dell’economia industriale e della scienza dell’investimento, che permette di abbracciare con un unico sguardo territori in precedenza metodologicamente distanti.
Possiamo concludere questa breve panoramica con una osservazione sul ruolo “introspettivo” delle opzioni reali. In linea di principio, le opzioni connaturate a un problema di investimento possono essere considerate “illimitate”, nella misura in cui riflettono la capacità dell’impresa di valutare le molteplici possibili implicazioni di ogni vantaggio competitivo acquisito, ad esempio in termini di economie di scala e di scopo. Ne consegue che pensare l’impresa come una successione di opzioni approfondisce la consapevolezza dell’impresa stessa sulla coerenza della propria vision. La cultura d’impresa è certamente un terreno fertile per l’applicazione delle opzioni reali; ad esempio, sapere comunicare ad eventuali finanziatori – banche, private equity, ecc. – le potenzialità di un progetto in termini di opzioni reali può accrescerne notevolmente l’attrattività. Del resto, il ruolo di un business plan è dimostrare che l’impresa ha una vision chiara su quali opportunità perseguire nel modo migliore.
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[1] Toyota Production System, vedi G. Ghillani, Capitale Intellettuale 6, 2015.
[2] Il grande matematico John Nash, Nobel 1994 per l’economia, è scomparso nel maggio di quest’anno.
Bibliografia
Brealey, R., Myers, S. (2003). Principles of Corporate Finance. McGraw-Hill.
Damodaran, A. (2009). Strategic Risk Taking. Pearson.
Luehrman, T. (1998). Strategy as a Portfolio of Real Options. HBR, Settembre.
Smit, H., Trigeorgis, L. (2004). Strategic Investment. Princeton University Press.