Danilo Coppe – Presidente Istituto Ricerche Esplosivistiche di Parma
Qualcuno[1] che mi conosce si potrà chiedere come mai un esperto di esplosivi e di criminalistica abbia avuto l’impulso, perché di impulso si tratta, di raccontare Giovannino Guareschi; dove mai può essere l’aspetto “criminologico” della questione?
Semplice: sono stati criminali l’indifferenza, l’ostilità, l’oblio, la sufficienza, l’ingratitudine che hanno accompagnato la vita e la morte del grande scrittore di Fontanelle. L’opera di Guareschi, ma soprattutto il suo insegnamento umano e professionale, sono alla base di un contesto storico di straordinaria attualità.
Giovannino Guareschi aveva la vista più lunga della maggior parte dei suoi contemporanei. La sua satira pungente, puntuale, coerente e mutevole rispetto ai tempi vissuti, sfuggiva alle logiche partitiche. Fu per personaggi come Guareschi che venne coniato il termine “qualunquismo”.
Un volgare sotterfugio per bollare chi cercava di diffondere uno spirito critico costruttivo. Qualunquista era chi si rifiutava di turarsi il naso, come raccomandava Montanelli. E, come cantava l’immenso Giorgio Gaber, altro personaggio bollato come qualunquista, si era “diversi perché quando è merda è merda, non ha importanza la specificazione”. Ma in un mondo di politici affaristi e lottizzatori dei media, segnalare alle folle le debolezze umane dei leader non costituiva certo un viatico al successo o al giusto riconoscimento dei talenti. Guareschi hanno provato in tanti a farlo tacere. Ci hanno provato i nazisti, relegandolo per quasi due anni nei più sperduti e crudeli campi di concentramento. Ci hanno provato anche le nostre patrie galere, attraverso magistrati da operetta, a piegarlo. Ma lui non si è piegato e non si è spezzato, incrementando l’odio e il rancore di chi poteva aiutarlo e non l’ha fatto. In tanti hanno tirato un sospiro di sollievo quando “il Zvanì l’è mort”. Solo pochi giornalisti, come Biagi, Torelli, Molossi, in parte Montanelli e pochi altri, l’hanno prima di tutto “rispettato”. La sua indipendenza e il suo talento erano, per i più, una fonte di frustrazione logorante.
Pensate che, nonostante l’indifferenza generale in patria, Guareschi è stato, durante gli anni della sua vita, prima, dopo e durante la sua prigionia, lo scrittore italiano più tradotto e diffuso nel mondo. Il senso del suo messaggio avrebbe meritato tutti i riconoscimenti possibili. E non mi riferisco ovviamente ai patetici premi letterari nazionali, dove gli editori comprano le nomination. Guareschi, e lo dico senza facili piaggerie, meritava il Premio Nobel per la Letteratura, se non per la Pace. Sicuramente lo avrebbe meritato per la forza morale e letteraria con cui ha sostenuto i suoi compagni di prigionia nei campi di concentramento. E l’ha meritato per aver costituito uno dei più fulgidi esempi di ingiusta detenzione, per volersi mantenere coerente e fiero delle proprie convinzioni. Ho già scritto, su qualche giornale, che il mio mito, Alfred Nobel, padre della dinamite e fondatore del Premio più importante al mondo, si sarà rivoltato nella tomba diverse volte negli ultimi anni. Per un premio a Guareschi si sarebbe invece rilassato e avrebbe sorriso. Incarnava esattamente lo spirito del Premio. Ecco perché mi sento in dovere di raccontarvi un po’ della vita di Guareschi; sono sicuro che così capirete meglio questo grande uomo.
Una mini biografia, in cui lo sforzo maggiore è stato riassumere, in poche pagine “cotanta vita di cotanto personaggio”.
Guareschi è nato il primo maggio del 1908 a Fontanelle, frazione di Roccabianca, provincia di Parma. Suo padre, Primo Augusto Guareschi, era un pezzo d’uomo alto e snello, pacifico ma soggetto ad innocui scatti d’ira, che potevano far paura solo a chi non lo conosceva. Lo chiamavano “Matto Basiga” per le sue stravaganze. Era quello che si definiva un tuttofare: proprietario terriero, contadino, meccanico, mediatore, ecc. Era un grande amico di Giovanni Faraboli, un nome assai noto nella Bassa parmense in quanto, da socialista della prima ora, fu il fondatore delle prime cooperative. Quando il primo maggio del 1908 Faraboli stava arringando la folla, in occasione della Festa del Lavoro, Primo Augusto Guareschi, anch’egli socialista seppur cristiano fervente, al termine del comizio, gli sbucò alle spalle, con il figlio appena nato fra le mani. Per non fare confusione col nome dell’amico, gli disse che lo avrebbe chiamato col diminutivo: Giovannino. La mamma di Giovannino si chiamava Lina Maghenzani. Era una maestra di scuola; inizialmente in quella di Fontanelle; in seguito a Marore. Guareschi dedicherà alla madre una citazione importante nel primo volume di Don Camillo, descrivendola come un “monumento nazionale del paese”. Guareschi frequentò il liceo al Convitto Maria Luigia di Parma, grazie ai salti mortali della madre. In quel contesto conobbe Nino Bocchi, che in seguito gli aprirà la strada nel campo dell’editoria. Insieme vissero anni di scatenata goliardia, fino al cambio di rettore e successiva espulsione del Bocchi. Guareschi si diede una calmata fino all’arrivo, come istitutore, del luzzarese Cesare Zavattini.
Insieme fondarono un giornale studentesco, si esibirono in un duo col mandolino e progettarono e realizzarono estemporanee e spassose recite satiriche sulla gerarchia del Convitto. Guareschi finì quindi serenamente la maturità. Si iscrisse poi a giurisprudenza. Per continuare a mantenersi agli studi, Giovannino finì per diventare lui stesso istitutore al posto di Zavattini, nel frattempo richiamato a Luzzara da problemi famigliari. Da Marore a Parma, Guareschi pedalava tutti i giorni su una bici scassata con addosso abiti consunti. In seguito abbandonò il Maria Luigia, dedicandosi ai mestieri più disparati: elettricista, ufficiale di censimento, istruttore di mandolino, portiere in uno zuccherificio. Fu in quell’anno, il 1929, che la rivista chiamata “Voce di Parma” indisse un concorso letterario riservato agli Under 30. A presiedere la giuria c’era il tipografo Mario Fresching e in palio c’erano duecento lire. Guareschi partecipò e vinse con un racconto chiamato “Silvania, dolce terra”. Il primo giornale interamente ideato, diretto e realizzato da Giovannino Guareschi si chiamava “Bazar”, a cui diede vita mentre era ancora ufficialmente iscritto e frequentante la facoltà di giurisprudenza. Raccontava a suo padre di essere sempre in procinto di dare tre esami alla volta, ma in realtà faceva tutt’altro. Curò persino un’edizione del Manuale dell’Automobilista per conto della Hoepli pur di stare in campo editoriale. Poi si dedicò a una monografia sull’Assedio di Parma, quando fu sconfitto Federico II di Svevia. “Bazar”, però, era la “sua” creatura e gli servirà, seppur stampato in proprio, come esperienza per progettare e sviluppare l’embrione che lo porterà, negli anni a venire, a diventare l’anima del “Bertoldo”, stampato invece a Milano. Finalmente l’amico Nino Bocchi, detto il Nibbio, riuscì ad inserirlo nel grande circuito della stampa, chiamandolo a collaborare con la Gazzetta di Parma che, durante il fascismo, dovendo cambiare linea editoriale per allinearsi col partito di governo, prese temporaneamente il nome di Corriere Emiliano. La redazione, all’epoca, era nel palazzo della Pilotta e pochi cronisti, fra cui il Nibbio, erano sufficienti a riempire il giornale. Tuttavia, per restare agganciato alla testata, Guareschi si accontentò di fare il correttore di bozze. Ma tanto lui quanto quel mattacchione del Nibbio, con il quale aveva condiviso, negli anni di scuola, goliardate tali da far impallidire gli “Amici Miei” di Monicelli, trovarono il modo di non annoiarsi, cercando volutamente frasi ambigue in cui far finta di trascurare qualche refuso.
È certo che l’esercizio di correttore di bozze, alla ricerca di doppi sensi, diventerà fondamentale nella realizzazione, dopo la guerra, dell’irresistibile saga dei “Trinariciuti”, ossia quei “compagni” che accettavano incondizionatamente qualsiasi direttiva arrivasse dai “dirigenti” del Partito Comunista. Sulle orme dell’amico Zavattini anche Giovannino finì per collaborare con testate realizzate a Milano, come sul periodico a respiro nazionale, il Secolo Illustrato. Fu in quegli anni, che precedettero ed accompagnarono l’inizio della seconda guerra mondiale, che il Nostro realizzò memorabili scritti sul Bertoldo, nonché le opere umoristiche “La Scoperta di Milano” (1941) e “Il destino si chiama Clotilde” (1942).
Schedato come “riottoso” alle “direttive” di partito fascista, esaurì presto tutte le opportunità di imboscarsi e, alla fine, benché malato di ulcera, dovette rientrare in “servizio”. Gli toccò una caserma ad Alessandria, ma ebbe la malasorte di esservi presente proprio nella fatidica data dell’8 settembre 1943. Dopo quella data, l’Italia si spaccò in due: da una parte molti suoi commilitoni si diedero alla fuga, simulando, chi più, chi meno, la partecipazione alla guerra partigiana; dall’altra, altri effettivi si arruolarono d’ufficio o nella Repubblica Sociale Italiana o direttamente nell’esercito tedesco. Guareschi, come era nella sua natura, scelse una terza improbabile via, quella di restare fedele al Regio Esercito, ma senza schierarsi. Come lui qualche decina di migliaia di altri Italiani. Poi si arrese e assunse la peggior qualifica che poteva toccare ad un prigioniero: IMI, ossia Internati militari italiani. Una categoria che non era contemplata dai codici militari, per cui non tutelata dalle regole della prigionia di guerra. Nemmeno la Croce Rossa si interessava di loro. Giovannino resistette fino alla fine della guerra. Quasi due anni.
Come lui, migliaia di altri Italiani furono deportati nei campi di concentramento, nelle condizioni di vita peggiori a cui si possa pensare. Dopo gli Ebrei, quella di Guareschi era la seconda tipologia di “feccia” agli occhi dei Tedeschi. Fu in mezzo alle peggiori vessazioni, al freddo, alla fame e alla disumanità assoluta che Guareschi coniò la frase che divenne presto un “tormentone”, diffuso e digrignato fra i denti, da tutti i suoi compagni di sventura: NON MUOIO NEANCHE SE MI AMMAZZANO. E così, come testimoniato da diversi superstiti di quel supplizio, Giovannino si prodigò per sé stesso e gli altri per tenere alto il morale, inventando finte trasmissioni radiofoniche satiriche, recite, bollettini locali, ecc. La sua coraggiosa goliardia sfociò persino nel memorabile sistema che adottò per aggirare il limite di 24 parole che gli veniva concesso per scrivere a casa. Quando dovette spiegare che non poteva ricevere più di cinque chili di merce, escludendo però carta o infiammabili, confezionando però in modo serrato quello che più gli serviva, produsse ad esempio la spassosa dicitura: “Robustizzate pacco pentachilo a ½ cedola all’uopata evitando medicincarte et infiammabili. Paccate sigartabacco, cremorzo, frumfarina”. Il risultato della sua opera fu di essere nuovamente “schedato” come sobillatore e quindi trasferito periodicamente in altri campi, sempre più isolati, sempre più duri. Scriverà mille appunti, durante quei terribili anni. Scriverà un libro nel 1949, il Diario Clandestino. Ma non utilizzerà gli appunti descriventi la sua vita da prigioniero. Troppo facile. Anche perché come scriverà nella toccante prefazione, dopo quasi cinque anni, le follie della guerra non erano chiare per niente: (…) la gente sta ancora litigando per mettersi d’accordo su chi ha vinto e su chi ha perso, su chi aveva torto e su chi aveva ragione. Su chi erano gli alleati e su chi erano invece i nemici. Ci furono dei nemici, infatti, che si trovarono improvvisamente alleati, degli alleati che si trovarono nemici. E, alla parte esterna, si aggiunse la parte politica interna e la annessa guerra civile che fecero schierare i padri contro i figli, le mogli contro i mariti, il nord contro il sud, l’est contro l’ovest, tanto che lo storico obiettivo che voglia effettivamente fare della storia onesta, dovrebbe limitarsi a scrivere che in un mondo di pazzi, i più pazzi furono vinti dai più pazzi.(…) Io, insomma, come milioni e milioni di persone come me, migliori di me e peggiori di me, mi trovai invischiato in questa guerra in qualità di italiano alleato dei tedeschi, all’inizio, e in qualità di prigioniero dei tedeschi alla fine. Gli anglo-americani nel 1943 mi bombardarono la casa, e nel 1945 mi vennero a liberare dalla prigionia e mi regalarono del latte condensato e della minestra in scatola.
Secondo Guareschi, un diario descrittivo della vita nel lager avrebbe dovuto avere l’approvazione di tutti i prigionieri. Anche di quelli morti di stenti o ammazzati dai kapò. Essendo tale “approvazione” impossibile, ecco perché gli appunti furono in gran parte distrutti; l’ennesimo gesto nobile del nostro testardo scrittore che riteneva di aver conosciuto la vera “democrazia” solo nei lager.
→ continua nel prossimo numero
[1] Nota del Direttore: Con l’approssimarsi del cinquantesimo dalla morte di Giovannino Guareschi pubblichiamo in due puntate un estratto di uno scritto edito cinque anni fa da un suo grande ammiratore. Guareschi fu, tra le tante manifestazioni del suo genio e della sua umanità, ottimo giornalista e un grande maestro di sintesi anticipando i limiti di Twitter nel numero di caratteri. Fine umorista e vignettista sin dall’infanzia, uomo, marito e papà dalla rara dirittura morale, inventò la saga di Mondo Piccolo i cui libri sono i più tradotti dall’italiano nella letteratura internazionale, ma è stato personaggio scomodo e non ha ricevuto mai nel tempo particolari riconoscimenti.