Casa Risorse Umane I Vizi capitali e la maturità emotiva

I Vizi capitali e la maturità emotiva

L’ira è un vizio clinicamente visibile e definito caldo, insieme alla gola e alla lussuria: seguiamo Maria Grazia Mazzali nella riscoperta dei vizi capitali attraverso la loro descrizione e rappresentazione

da Capitale Intellettuale


Maria Grazia Mazzali Psicanalista, Consulente Apco CMC, docente presso la Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Conversazionale

2. L’Ira

Se l’invidia è un vizio segreto e privato, mimetizzabile e oscuro, l’ira è, all’opposto, un vizio clinicamente visibile e definito caldo, insieme alla gola e alla lussuria. L’ira può essere anche una virtù come sostiene Sant’Agostino, quando è al servizio della giusta causa contro un grave e iniquo danno subito, quando difende deboli e perseguitati dalla malvagità e dalla crudeltà. In questa sede parlerò dell’Ira come vizio. Schopenhauer sosteneva: “Alla base l’uomo è selvaggio, una bestia… nel petto di ogni uomo all’infinito egotismo della nostra natura, è unita una capacità di odio, ira, invidia, rancore e malignità che si accumulano come veleno e sono solo in attesa dell’opportunità di sfogarsi per poi, come demonio scatenato, infuriare e infierire”.
Perché ciò? Non è dato saperlo, ma la storia dell’uomo parla fin dai suoi albori di violenza: “L’ira degli Dei… L’ira funesta del pelide Achille… L’ira di Dio…” Sono ire degne di nota! Secondo la teoria freudiana della mente, l’inconscio dell’uomo è dominato da due pulsioni: quella di vita detta Eros e quella di morte detta Thanathos (Fig. 1).

La prima sottende tutti gli atti a favore dell’autoconservazione e della riproduzione, mentre la seconda arma tutte le azioni legate alla violenza, alla crudeltà, alla distruttività verso altri esseri umani (omicidio) o verso se stessi (suicidio).
Queste pulsioni sono contenute in un serbatoio mentale detto Es, motore biologico di tutte le forze istintuali dell’uomo. L’educazione sentimentale, morale, etica e sociale sarebbe finalizzata a modificare queste naturali propensioni dell’essere umano, attraverso la civilizzazione e la socializzazione.
Il bambino educato sviluppa la coscienza civile, la solidarietà, l’appartenenza e l’amore per i propri simili.
Questo processo educativo, che dura fino alla maggiore età, diventa un ente interno inconscio, denominato da Freud Super-Io e regolamenta il comportamento sociale del bambino tramite la voce della coscienza.
L’Io, che rappresenta la nostra parte conscia, dipende contemporaneamente dagli impulsi dell’Es e dagli imperativi del Super-Io collegando tutto ciò alle esigenze della realtà.
Es e Super-Io devono vivere in armonia e in accordo per poter garantire al soggetto un’esistenza serena e realizzante, poiché in caso di eccesso dell’uno o dell’altro si potranno avere gravi conseguenze nell’equilibrio psichico e affettivo dell’individuo. L’eccesso di Super-Io causa una esagerata repressione del desiderio, per colpa di un’educazione troppo rigida, e saremo di fronte ad un tipo psicologico nevrotico incapace di procurarsi il piacere in modo sano e appagante.
Nel secondo caso, a causa di una educazione troppo permissiva, si avrà un Super-Io debole e un eccesso di libertà dell’Es, e saremo di fronte ad un individuo psicopatico, incapace di sottostare alle leggi sociali e legali, prepotente, collerico.
Prenderà ciò che ritiene di suo diritto usando la violenza, l’estorsione e la minaccia, questo soggetto incarna pienamente il vizio dell’ira negativa e distruttiva, poiché in tale psiche l’ira non è l’occasionale esplosione di rabbia, ma diventa un grave sintomo di perdita dell’autocontrollo.

L’iracondo è affetto da un’estrema suscettibilità, che esplode in una furia selvaggia anche di fronte alla più trascurabile delle inezie; non è in grado di dialogare, di ascoltare le ragioni altrui, di esercitare la pazienza, non è in grado di amare il prossimo e di accudire emotivamente il partner.
Il Super-Io si forma attraverso l’identificazione con i modelli comportamentali degli adulti di riferimento e i valori inculcati dalla famiglia e dalla società di appartenenza.
Il bambino appena nato è completamente dipendente per la sua sopravvivenza dalle cure parentali e i genitori dovrebbero rispondere in modo adeguato e premuroso ai suoi segnali.
Se le modalità di accudimento non vengono date con intelligenza e solerzia, si possono causare gravi conseguenze nella costruzione di quell’esperienza affettiva positiva, indispensabile alla formazione del cosiddetto “oggetto buono”.
Questo modello interno, definito appunto “oggetto buono”, si costituisce nei primi quattro mesi di vita e predisporrà il bambino ad avere fiducia negli adulti, essendosi sentito amato, protetto, capito e trattato con tenerezza, e l’esempio ricevuto verrà da lui appreso per diretta assimilazione.
Secondo F. Fornari (1979) il ruolo congiunto delle due figure parentali assume un’importanza fondamentale per aiutare il piccolo a comprendere, da una parte ciò che sta provando, dall’altra a tentare modalità diverse, consistenti in comportamenti convalidati e tollerati dalla comunità nella quale vive. Ciascun genitore infatti costituisce uno dei poli alternativi di riscontro e di richiesta collocati nel circuito relazionale e funzionale, dove il maschile e il femminile divengono, attraverso l’identificazione nel processo di assimilazione e differenziazione, la base primaria della formazione di identità e socialità. Queste ultime rappresentano i parametri sui quali trasformare in un mondo interno ordinato la molteplicità delle esperienze: responsabilità trasgressione, socialità-intimità, autorevolezza-accoglienza che ne costituiscono alcune sfaccettature realmente percepite, assimilate ed esercitabili.
Nel caso l’accudimento sia negativo, il piccolo sperimenta sofferenza fisica (fame, freddo, pannolino bagnato) o mentale (angoscia abbandonica, ansia, terrore, solitudine, noia, insofferenza, abusi), anziché un oggetto buono si forma un cosiddetto “oggetto cattivo”, che predisporrà nei primi quattro mesi successivi lo sviluppo di un irreversibile legame con la pulsione di morte e la fissazione dell’invidia. (M. Klein; Invidia e gratitudine)
Le qualità dinamiche negative delle immagini mentali e la loro matrice affettiva ed esperienziale radicate nel circuito relazionale familiare consentono di mettere a fuoco come l’ira possa innescarsi anche in rapporto a relazioni esistenziali ormai interne al soggetto, allorché la loro carica frustrante venga attualizzata da stimoli esterni all’apparenza insignificanti, ma drammatici per i vissuti inconsci del soggetto.
Nel Dizionario di psicologia di U. Galimberti, l’ira viene definita come un desiderio sfrenato di vendicare un torto subito. Il vizio è una categoria morale che denota la pratica di condotte considerate negative in base ad un determinato sistema di valori.

Opposto alla virtù intesa come dominio della razionalità sugli impulsi istintivi (Super-Io sull’Es), il vizio è una soggezione all’istintualità senza alcuna regola razionale, con il tratto dell’abitudine (Super-Io assoggettato all’Es).
Dopo secoli di giudizi morali e religiosi, oggi i vizi capitali sono considerati la manifestazione psicopatologica dell’uomo e diventano malattie dello spirito.


Il filosofo Remo Bodei afferma
La distinzione fondamentale, che esiste da quasi duemilacinquecento anni, è quella tra ira giusta, nobile o eroico furore (l’indignazione contro l’ingiustizia, che è sostanzialmente rivolta contro chiunque la commetta e in favore di chiunque la subisca) e l’ira che dipende da un’offesa “a sua maestà l’Io”.


In quest’ultimo caso, l’ira è un indicatore del grado di vulnerabilità del proprio io e, insieme, del suo desiderio di imporsi o di difendersi. Rappresenta talvolta anche un eccesso di legittima difesa dello spazio psichico e fisico personale e del sistema di credenze al quale l’io stesso aderisce.
Anche se oggi la distinzione tra il nobile sdegno e l’ira come difesa della propria persona e dei propri privilegi si è attenuata e in alcuni casi regna l’indifferenza, resta comunque viva l’indignazione contro le ingiustizie sociali e politiche. E speriamo che non si spenga. -continua Bodei – Le tensioni familiari sono sempre state terribili, basti pensare alla tragedia greca, che nella maggior parte si fonda su di esse. Lo testimoniano i suoi protagonisti. Edipo, Medea, Clitennestra, Oreste o Elettra. In larga misura, è tuttavia ora finita l’oppressione millenaria delle donne.
La loro ira resta però normalmente legata alle difficoltà di inserirsi in un ambiente competitivo come quello maschile, alla paura di non essere all’altezza dei compiti assegnati e al dover espletare contemporaneamente sia le faccende domestiche, sia il lavoro fuori casa. Si stanno, tuttavia, faticosamente rinegoziando e riconfigurando nuove modalità di relazione tra i sessi, che generano tensioni in entrambi, perché implicano la penosa rinuncia a certi privilegi da parte degli uomini e il riconoscimento di contesi spazi di autonomia negati alle donne”.
Sull’onda delle riflessioni del filosofo R. Bodei si può richiamare alla mente la cronaca nera attuale, quando denuncia i delitti passionali verso le ex-mogli, sostenendo che negli ultimi anni è in notevole progressione. Ci troviamo di fronte ad uno dei processi succitati della “lesa maestà”, dovuto, secondo il mio parere, ad una forma di analfabetismo emotivo circa i diritti maturati di legge, ma non ancora di costume, nei confronti della libertà femminile!
Come afferma Dino Formaggio che nell’arte si sono succedute figure di coscienza storica nei passaggi evolutivi di questa dimensione umana, così anche i modelli evolutivi di identificazione sociale degli archetipi Maschile e Femminile hanno prodotto nei millenni cambiamenti di tale portata!
Passando dall’antropologia psichiatrica all’etologia comparata, ho identificato alcuni stereotipi sociali di tali archetipi che hanno modificato in modo epocale il rapporto tra i sessi, attraverso un mutamento del profilo clinico e psicopatologico dell’ira.

  1. L’uomo delle caverne: cacciava la donna come una preda sessuale, tramite la violenza e la clava.
  2. L’uomo sociale primitivo: usava la donna come merce di scambio durante le prime aggregazioni sociali, ma già abbastanza evoluto da essere in grado di capire i danni alla specie dovuti all’accoppiamento consanguineo. (Levy-Strauss)
  3. L’uomo al tempo di Shakespeare, dove le donne, se figlie, erano sotto la totale tutela del padre, che poteva deciderne la morte in caso di ribellione ai suoi voleri, e usate per accumulare potere e ricchezza tramite matrimoni d’interesse; se sole o abbandonate potevano essere indicate come streghe e bruciate sul rogo della Santa Inquisizione!
  4. Il libertino del settecento: ha cambiato l’ottica e l’approccio emotivo verso la donna, considerandola un mezzo per soddisfare le proprie sfrenate ambizioni sessuali.
  5. Il bigotto di Freud: il porco e il padre, a quel tempo la morale sessuale prevedeva la scissione della sessualità maschile. L’uomo considerava asessuata la madre dei propri figli, la moglie, che non doveva avere aspirazioni sessuali per essere degna di tal nome. Contemporaneamente frequentava senza conseguenze bordelli e case di tolleranza per la propria libido sessuale.
  6. Le tombeur des femmes: riconoscibile nel modello sociale maschile del novecento, epoca in cui inizia la relazione d’amore passionale tra i sessi e in cui l’uomo desidera essere un oggetto del desiderio per l’amata.
  7. L’uomo del 1968: “mettete dei fiori nei vostri cannoni” dove l’ira tra i sessi esplode al massimo della potenza.
  8. L’uomo attuale: l’archetipo maschile si destreggia nella coppia macho-micio, pericolosa mancanza di confini identificativi netti e la libertà, a mio avviso patologica di potersi configurare senza limiti nelle tre identità: sessuale, di genere e di ruolo senza soluzione di continuità. Promuovendo un’educazione unisex non si garantisce lo sviluppo dei talenti prettamente maschili e femminili, dovuti alla naturale differenza di genere.
  9. L’uomo nuovo: “il terzo uomo”, colui che vive in modo armonioso entrambi gli oggetti d’amore genitoriali, come affermava F. Fornari e che è in grado di conciliare forza e tenerezza, autonomia e intimità, appartenenza e libertà, protezione ed emancipazione.

Nel terzo uomo, come nella terza donna, i due poli del maschile e del femminile comunicano in modo paritetico e armonioso, dando l’opportunità alla diade relazionale di soddisfarsi entrambi in tutta la complessa configurazione dei ruoli di amanti, coniugi compagni e genitori, donandosi supporto, amore, tenerezza e fiducia, lasciando l’ira e dintorni alle epoche storiche più buie, dalle quali proveniamo. ■

ANNO 2 N.3

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