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Il tempo nelle relazioni di supervisione e collaborazione professionale

Credo che tutti noi che operiamo in organizzazioni di lavoro, con ruoli di responsabilità diretta o come consulenti, siamo ben consapevoli che molte delle difficoltà relazionali che pregiudicano il successo delle azioni professionali sono direttamente o indirettamente riconducibili all’incapacità di gestire rapporti di collaborazione in vista della soluzione di un problema

da Capitale Intellettuale
secondo

Rodolfo Sabbadini Psicologo. Direttore della Scuola di Counselling dell’Istituto Torinese di Analisi Transazionale. Condirettore della Rivista Tecniche Conversazionali. Direttore scientifico del Laboratorio di Psicologia e Psicoterapia di Torino.

La supervisione professionale come relazione di counselling

Lavoro da circa trentacinque anni in azienda, da oltre venticinque come dirigente. Credo che tutti noi che operiamo in organizzazioni di lavoro, con ruoli di responsabilità diretta o come consulenti, siamo ben consapevoli che molte delle difficoltà relazionali che pregiudicano il successo delle azioni professionali sono direttamente o indirettamente riconducibili all’incapacità di gestire rapporti di collaborazione in vista della soluzione di un problema.

La relazione di supervisione e di collaborazione professionale è caratterizzata da una struttura molto simile a quella del counselling, o quantomeno del counselling così come lo intendiamo noi che adottiamo la prospettiva drammaturgia (Sabbadini, 2012). Tanto è vero che, sempre più di frequente, professionisti operanti in campo aziendale, educativo, sociale e sanitario si rivolgono alla nostra Scuola per acquisire una formazione alla gestione della relazione di collaborazione che integri le loro competenze più specificamente tecniche.

Proprio nella nostra concezione della relazione di collaborazione, il tempo rappresenta una variabile strategica della quale l’interazione professionale deve tenere massimo conto.

Per semplicità espositiva, d’ora in avanti, utilizzerò il termine “supervisore” per indicare colui al quale l’aiuto è richiesto e quello di “collaboratore” per indicare chi richiede l’aiuto, considerando la differenza di ruolo non in termini gerarchici ma in funzione di un problema da risolvere. In altre parole per supervisore si intende la persona che rappresenta una fonte di orientamento per il collaboratore il quale, pur avendo le competenze necessarie, per diversi motivi si trova provvisoriamente nell’incapacità di risolvere un problema, e per tale motivo – appunto – chiede aiuto.

 

Il tempo

Il tempo può acquistare rilevanza sotto diverse prospettive:

  • come oggetto di lavoro per il supervisore e il collaboratore;
  • come fattore condizionante le azioni poste in essere dal supervisore e dal collaboratore;
  • come dimensione nella quale l’intera relazione di supervisione si sviluppa.

Il tempo come oggetto di lavoro per il supervisore e il collaboratore

Come ho accennato in un mio precedente intervento in questa Rivista (Sabbadini 2013), in molti contesti lavorativi, oggi, il tempo viene strumentalizzato come variabile coercitiva per indurre scelte avventate o forzate.

L’emergenza spesso viene utilizzata come leva di potere per non lasciare lo spazio necessario a ponderare adeguatamente tutte le variabili che possono influire sull’adozione di una scelta.

Nell’affrontare molti problemi, per esempio in ambito aziendale, il tempo spesso viene ricondotto alla forma di un’emergenza continua che non corrisponde ad un’oggettiva esigenza di assumere decisioni o porre in essere azioni, ma deriva piuttosto da pregiudizi culturali, da valutazioni sommarie e superficiali, o ancora da strategie finalizzate a condizionare l’altrui libertà di valutazione. Il marchio dell’urgenza inibisce il diritto-dovere di analizzare a fondo la situazione problematica per configurarla dal proprio punto di vista, e sollecita piuttosto l’operatore ad accettarla esattamente così come viene proposta o per come appare al primo superficiale approccio.

In molti contesti organizzativi è radicato il principio che ogni decisione debba essere assunta nei tempi più brevi possibili.

Tale principio, naturalmente, può avere realistici fondamenti, come – per esempio – quello dell’esigenza operativa di anticipare le azioni di soggetti concorrenti sul mercato. Tuttavia non bisogna confondere la tempestività, che ha, senza dubbio, una valenza positiva, con l’urgenza, che – quasi sempre – induce all’errore.

L’azione (fisica o mentale) tempestiva è quella che giunge opportuna, che si compie nel momento adatto, migliore, più conveniente. L’azione urgente è quella che non ammette dilazioni o ritardi, che “deve” essere attivata subito, indipendentemente da ogni valutazione.

L’azione tempestiva non prescinde dalla dimensione tempo, perché il tempo è sempre un fattore che concorre in modo significativo a determinare l’esito dell’azione. Tuttavia la tempestività, a differenza dell’urgenza, considera il tempo al pari delle altre variabili, che vengono tutte prese in considerazione con l’obiettivo di ottenere il risultato migliore possibile per il soggetto dell’azione.

Spesso l’azione tempestiva è altrettanto immediata di quanto lo è l’azione urgente. La differenza sta nel fatto che la prima chiede all’operatore di valutare se, nelle specifiche circostanze, l’immediatezza sia opportuna perché un tempo più lungo aumenterebbe in termini sconvenienti il rischio di insuccesso dell’azione. In altre parole, egli dovrà decidere che il rischio di insuccesso conseguente all’aver attuato una decisione in tempi brevi è inferiore al rischio di insuccesso conseguente ad un allungamento dei tempi; circostanza – quest’ultima – che potrebbe favorire, per esempio, un più favorevole posizionamento sul mercato di un’azienda concorrente.

Il lavoro del supervisore, dunque, si svilupperà tenendo conto della linea guida per la quale il dato temporale del problema formulato dal cliente va posto in relazione con le altre circostanze oggettive che caratterizzano il problema medesimo, al fine di strutturare l’azione più adeguata affinché prevalgano le probabilità di successo sui rischi di insuccesso.

Il tempo come fattore condizionante le azioni poste in essere dal supervisore e dal collaboratore

Come abbiamo premesso, il lavoro del supervisore è parametrato sulle risorse del collaboratore. Tali risorse comprendono anche la sua attitudine a gestire il tempo orientato all’azione.

Per tale motivo il supervisore deve essere capace di esercitare quella comprensione dell’altro necessaria a cogliere i suoi ritmi di lavoro e di elaborazione. I suoi ritmi regoleranno l’interazione tra i due interlocutori, tenendo anche conto che – di norma – il contributo del supervisore matura e si esaurisce in un unico incontro. Sarà suo compito riuscire, se è un bravo professionista, con le tecniche adatte, a strutturare il problema in modo che possa essere gestito con successo nei predetti termini temporali. Il suo obiettivo sarà quello di aiutare il collaboratore a gestire o risolvere un problema  circostanziato, esplicitamente e chiaramente posto; ciò rappresenta una delle connotazioni che contraddistinguono l’intervento di supervisione drammaturgica da quelli tipici di altre professioni come, per esempio quella medica, quella psicologica o di consulenza spirituale, che centrano il loro lavoro prevalentemente o esclusivamente sulla persona, anziché sul problema.

 

Il tempo come dimensione nella quale l’intero percorso professionale di supervisione si sviluppa

Quando parliamo del tempo delle azioni professionali,  facciamo sempre riferimento alla prospettiva  di uno specifico attore del processo che si sta sviluppando. La dimensione tempo si incrocia con la dimensione soggettiva, individuale.

Quando il collaboratore descrive al supervisore la situazione problematica che lo coinvolge è come se raccontasse una storia della quale egli è il protagonista. Dunque, mentre racconta, egli stesso e il supervisore, nel presente, hanno a che fare con eventi passati. Se però ci mettiamo nei panni del protagonista della storia (che altri non è se non il collaboratore di qualche tempo prima), nel mentre la storia viene raccontata, dobbiamo riconoscere che egli stesso viene raccontato, e dunque vive nel presente le vicende narrate, e non conosce il proprio futuro, che è tutto nelle azioni narrative che il collaboratore, prima ha in mente, e poi descrive al supervisore. In altre parole, mentre racconta, il collaboratore attualizza il futuro del protagonista, suo alter ego, della narrazione. Quest’ultimo, come d’altra parte il supervisore che sta ascoltando, nulla potranno fare per contribuire a determinare quel suo futuro che resta solo ed esclusivamente nella disponibilità del narratore.

Quando il collaboratore e il supervisore, prendendo le mosse dalla vicenda problematica passata, appena descritta, si impegnano per decidere insieme “azioni nuove”, risolutive delle criticità, come fossero le componenti di una nuova storia vincente, lavorano nel presente; proprio come vive nel presente narrativo il personaggio che ha il compito di attivare tali azioni. Al termine dell’incontro, infatti, il protagonista della storia, alter ego del collaboratore, avrà – sul piano della pratica –  risolto tutti i suoi problemi, e sarà nella condizione di  regalare quella storia al collaboratore che potrà farne un modello da adottare nella propria realtà operativa, scommettendo sulla sua efficacia e sul suo successo.

Il futuro del protagonista della storia nuova, man mano che essa viene costruita, a differenza di quanto accadeva nella storia portata dal collaboratore, è a tutti sconosciuto, e nessuno ha facoltà di determinarlo. Non potranno determinarlo i narratori – il collaboratore e il supervisore –  che dovranno mediare tra loro le proprie istanze narrative, e – ovviamente – non potrà determinarlo il personaggio della nuova storia, costretto a restare alla mercé dei narratori. Ma una volta che quella storia è stata ultimata e “consegnata” nelle mani del collaboratore, questi potrà tornare alla sua vita quotidiana, dove la situazione problematica di partenza lo aspetta, portando con sé il tempo del protagonista della storia costruita con il supervisore,  che è un tempo passato per il protagonista, perché la storia è ormai compiuta, ma che è un tempo futuro per lui che – ora – la pone come riferimento delle azioni che andrà a compiere.

Da questo momento in poi prende l’avvio un processo di sperimentazione che consiste nel verificare la conformità della storia, costruita durante l’incontro tra supervisore e collaboratore, e le situazioni professionali che vivrà quest’ultimo.

Il buon supervisore non lavora “sul” passato, ormai immodificabile, e neppure “sul” presente, che si esaurisce nella relazione con il collaboratore. Piuttosto, accoglie nel presente il passato del collaboratore per trarre da esso gli elementi utili a costruire il prologo, l’incipit di una nuova narrazione di successo che rappresenterà un modello professionale per il collaboratore.

Il collaboratore e il supervisore sono orientati, dunque, al futuro. Il loro obiettivo è quello di costruire, qui ed ora, insieme, un futuro possibile che potrà rappresentare, se il processo sperimentale darà esito positivo, l’evoluzione vincente (in termini di coerenza con gli obiettivi professionali concordati) dell’attuale condizione problematica.

Al collaboratore resterà in carico solo la “verifica sperimentale” del futuro tracciato. Tale processo potrà dare esito:

  • completamente positivo: in tal caso, il passato del personaggio viene via via validato dal presente del collaboratore costituito dalle sue nuove azioni professionali;
  • parzialmente positivo: quando i moduli narrativi risultano solo parzialmente congruenti con il presente del collaboratore. In tal caso, quest’ultimo potrà ritornare dal supervisore, per riprendere le fasi della narrazione rivelatesi incongruenti e riformularle nella prospettiva che restino, poi, validate in fase di sperimentazione.
  • completamente negativo: in tal caso il cliente potrà proporre al supervisore di rivoluzionare senz’altro la storia creata.

ANNO 4 N.3

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  • Bibliografia
  • Dewey J. (2008) Logica sperimentale. Teoria naturalistica della conoscenza e del pensiero, Quodlibet, Macerata.
  • Lai G. (2012), “Dalla conoscenza della storia all’azione sul futuro”, Tecniche Conversazionali, XXIV, 48, ottobre, www.tecnicheconversazionali.it
  • Sabbadini R.  (2012), Il metodo drammaturgico nella relazione di counselling, Franco Angeli, Milano.
  • Sabbadini R. (2013), “Angolazioni del counselling drammaturgico”, Capitale Intellettuale. Rivista di cultura Aziendale -2013 – Anno 4 N.1

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