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Investimenti e corporate governance

La Corporate Governance di un’impresa ha il compito di rendere leggibile e gestibile la complessità dell’ambiente nel quale l’impresa di trova ad operare, individuando allineamenti ragionevoli, in termini di contratti, tra obiettivi di breve e lungo periodo per i vari portatori di interesse dell’impresa.

da Capitale Intellettuale

Andrea Mantovi docente di Approfondimenti di Microeconomics presso il Dipartimento di Economia dell’Università di Parma, Dottore di ricerca in Fisica

La crisi che negli ultimi anni ha attanagliato Europa e Stati Uniti è un evento straordinario per intensità e durata, paragonabile solo alla tristemente celebre grande crisi del ’29, dalla cui analisi, tra l’altro, è nata la scienza macroeconomica. Le analisi delle dinamiche finanziarie che hanno generato la crisi sono state numerose tanto nei media quanto nell’accademia, e ci forniscono una certa consapevolezza di quale complessità sia rappresentata nella moderna economia finanziaria globale – per una discussione particolarmente illuminante si veda Acharya et al., Manufacturing Tail Risk: A Perspective on the Financial Crisis 2007-2009, Foundations and Trends in Finance 4, 2009. Si parla ormai di rischio sistemico per indicare le instabilità degli equilibri finanziari globali.

La complessità dei sistemi economici e finanziari è un tema ormai riconosciuto come strutturale tanto dai ricercatori quanto dai professionisti impegnati sul campo in prima persona – si veda ad esempio l’articolo di Giulio Tagliavini su Capitale Intellettuale, Febbraio 2014 – e in effetti, tra le altre cose, la Corporate Governance di un’impresa ha il compito di rendere leggibile e gestibile la complessità dell’ambiente nel quale l’impresa di trova ad operare, individuando allineamenti ragionevoli (in termini di contratti) tra obiettivi di breve e lungo periodo per i vari portatori di interesse dell’impresa.

Quando nel 2007 andava in stampa Investimenti e Corporate Governance. Per un nuovo paradigma – A. Schianchi, A. Mantovi, Carocci, “ICG” per brevità – la crisi imminente aveva già dato le prime avvisaglie, tramite il credit crunch di Agosto 2007, ed esisteva ormai una consapevolezza diffusa tra gli addetti ai lavori riguardo le criticità delle dinamiche generate dalla finanza strutturata. Ad esempio, nello special report Risk and reward – The Economist, 17 Maggio 2007 – troviamo perfettamente delineate le dinamiche che porteranno alla crisi, in particolare l’eventualità che i rischi che le banche pensavano di avere ceduto a hedge fund e fondi pensione potessero ricomparire sui loro bilanci, ed eventualmente affossarli in caso di drammatici eventi sistemici.

ICG non focalizza tali dinamiche, essendo gli enormi scandali corporate di inizio millennio – Enron e Parmalat in primis – e il dibattito “law&economics” i principali spunti di analisi. A sette anni di distanza, possiamo guardare ai temi trattati in ICG con l’occhio – tristemente – consapevole dei tragici effetti che una governance discutibile delle grandi istituzioni finanziarie ha scaricato su cittadini e imprese dei paesi sviluppati, e riconoscervi una chiave di lettura pregnante per il superamento della crisi, come il seguito dell’articolo tenta di chiarire.

ICG costruisce un quadro sistematico del problema dell’investimento – in primo luogo, le opzioni reali – come connesso al problema di incentivi, nella forma Principal-Agent, che informa le relazioni di agenzia tra proprietà e controllo delle imprese. Il modello di Grenadier e Wang discusso in Investment timing, agency, and information, Journal of Financial Economics 75, 2005, è il cuore dell’esposizione, e rappresenta un utile punto di riferimento in quanto combina in modo significativo i due suddetti problemi fondamentali.

In una teoria dinamica dell’impresa, il problema dell’investimento è il tema fondamentale. I vantaggi competitivi, come noto, svaniscono se non opportunamente ricostruiti – si pensi ad esempio al mercato degli smartphone – e il problema non è se investire, ma quanto e quando investire. La teoria delle opzioni reali definisce un framework sofisticato per formulare tale problema, strutturato sulla opzione stilizzata di aspettare a investire – optimal investment timing – fino al momento di massimo rendimento dell’investimento, date, ovviamente, precise ipotesi sulle dinamiche esogene con cui l’impresa si confronta. Rispetto al criterio NPV standard – investire se i ricavi attesi superano i costi – le opzioni reali definiscono un problema di ottimizzazione rispetto a variabili ben definite e significative, lungo la linea concettuale su cui si è sviluppata la teoria economica, in particolare l’assenza di free lunch. In un certo senso, i meccanismi di impacchettamento del rischio tramite titoli strutturati configuravano un free lunch – Acharya et al., 2009, p. 266 – che garantiva rendimenti superiori al tasso risk-free, pur essendo tali titoli, apparentemente, risk-free.

In ICG si configura un problema di incentivi per un manager rappresentativo delle scelte di investimento, interessato a massimizzare la propria remunerazione. Come noto, gli economisti hanno trovato molto utile studiare i sistemi “come se” ci fossero obiettivi da massimizzare – il che, in effetti, spesso accade – una “finzione” che permette di definire i problemi economici come ottimizzazioni; ricordiamo, i modelli economici non intendono prevedere il corso degli eventi, ma fornire una rappresentazione coerente degli incentivi in azione. Ebbene, un generico agente rappresentativo, manager di un’impresa, ha in generale incentivi a sfruttare le asimmetrie informative a lui favorevoli, che sono alla base dei problemi di selezione avversa e rischio morale. Nel contesto della crisi, le asimmetrie informative tra generatori ed acquirenti di titoli tossici sono state certamente fonte di complessità per il problema di ristabilizzare il sistema finanziario globale.

Elemento cruciale per la nostra analisi sono i rischi generati ed impacchettati nei titoli strutturati che si diffondono nel mercato con la perdita di controllo, una volta che la dimensione del fenomeno superi determinate soglie critiche. Questo è un punto che i regulator, Banche centrali e autorità dei mercati in primo luogo, sembrano aver acquisito come linea di policy fondamentale: responsabilizzare le grandi istituzioni finanziarie che convogliano i risparmi degli investitori, piccoli e grandi, del fatto che eventuali perdite da investimenti andati male non sono solo problemi individuali di mancati profitti per singoli investitori consapevoli, nella migliore delle ipotesi, ma un costo sociale per intere economie che dall’ultima crisi finanziaria hanno subito contraccolpi tragici. I requisiti patrimoniali oggetto delle regole di Basilea intendono anche – soprattutto? – a questo.

Ebbene, l’agente rappresentativo discusso in ICG non diffonde nel mercato i rischi dell’investimento, ma insegue il cosiddetto upside risk, in particolare le opportunità di profitto, in condizioni di incertezza, associate alla flessibilità operativa, che le opzioni reali permettono di trattare quantitativamente; infine, la remunerazione del nostro agente è funzione crescente del risultato economico ottenuto. Si può confrontare tale paradigma con le dinamiche illustrate da un interessante articolo dell’Economist – Confessions of a risk manager, 7 Agosto 2008, antecedente il crack Lehman – che chiarisce come le divergenze di obiettivi tra risk unit e business unit di una grande istituzione finanziaria rappresentativa rendessero l’attività di risk management sostanzialmente subordinata agli obiettivi della business unit.

Col senno di poi, possiamo dire che se il paradigma “originate to distribute” può rappresentare, in linea di principio, un meccanismo di allocazione ottima del rischio tra operatori adeguatamente robusti e consapevoli, il suo corollario distorto, l’indiscriminato impacchettamento e distribuzione del rischio, si è rivelato tragicamente insostenibile dalle attuali strutture di mercato. Gli operatori che hanno generato e distribuiti titoli ‘tossici’ hanno avuto ottimi rendimenti fino al 2006; tali rendimenti, tuttavia, vanno considerati in relazione al successivo, prevedibile,  scoppio della bolla subprime, che ha innescato l’avvitamento recessivo delle economie avanzate di cui siamo tutti stati spettatori. I paradigmi microeconomici discussi in ICG per la gestione del rischio indicano altresì una direzione sostenibile di risk management, in cui gli operatori si confrontano con l’upside risk e ottimizzano le loro opportunità di profitto, senza innescare dinamiche complesse difficilmente, per usare un eufemismo, controllabili. Questa è forse la lettura più interessante del metodo discusso in ICG alla luce dell’ultima crisi, che ci allinea ai principi del risk management enunciati da Aswath Damodaran – Stern School of Business – in particolare il principio per cui l’obiettivo del risk manager non è evitare rischi, né tantomeno inseguire profitti eccessivamente rischiosi; bensì, individuare e mantenere un bilanciamento adeguato tra upside e downside risk, il che, nel concreto, significa ‘leggere la complessità’ con la quale ci si confronta, diversa per ogni impresa.

ANNO 5 N.2

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