Casa Risorse Umane Perché tagliamo le pietre? Riflessioni per motivarsi e motivare

Perché tagliamo le pietre? Riflessioni per motivarsi e motivare

La Consulenza di questo decennio sarà sempre più sinonimo di innovazione, il management aziendale gestirà progetti standard, i consulenti supporteranno le trasformazioni organizzative, di processo e di prodotto-servizio

da Capitale Intellettuale

 

Roberto Sartori Psicologo esperto in processi di formazione e sviluppo organizzativo

 

“……Un giorno un passante vedendo un tagliatore di pietre intento nel proprio
duro lavoro, incuriosito gli domandò cosa stesse facendo. Questi
stremato dalla fatica, in modo rabbioso gli rispose “ Non vedi? Sto spaccando
delle pietre”. Non soddisfatto della risposta, il passante decise di
porre la stessa domanda a un secondo tagliatore che a differenza del primo
sembrava svolgere il proprio lavoro con minor fatica e maggiore calma.
L’operaio, interrompendo per un attimo il proprio compito, rispose
serenamente: “Sto guadagnandomi il denaro che mi servirà per provvedere
alla mia famiglia”. Continuando la propria passeggiata, l’uomo
s’imbatté poi in un terzo tagliapietre. Questi stava prestando molta cura
al proprio lavoro, che svolgeva con attenzione, impegno e precisione.
Colpito dall’evidente differenza, il passante pose anche a esso lo stesso
quesito. Il tagliapietre lo guardò ed entusiasta gli rispose “Sto costruendo
una Cattedrale bellissima”

Quante volte nel corso della propria vita ci sarà capitato di domandarci perché abbiamo scelto di perseguire determinati obiettivi? Perché in alcuni casi siamo riusciti a raggiungerli con facilità mentre altre volte al sopraggiungere delle prime difficoltà abbiamo deciso di rinunciare? O ancora perché alcune attività riescono ad entusiasmarci spingendoci a dare il meglio, mentre altre ci “stressano” irrimediabilmente?
Probabilmente tante volte. In quelle occasioni, forse senza accorgercene, ci siamo occupati di motivazione.
Con il termine motivazione si fa riferimento, infatti, a un fenomeno interiore che presiede all’innesco e all’esecuzione di una condotta in vista del conseguimento di un fine.

La parola, deriva dal latino “Motivus” e significa “ciò che spinge o che suscita a fare”. Ovviamente non siamo i soli ad esserci posti questo tipo di domande. Nel 1981, secondo quanto evidenziato da alcuni studi condotti da Kleinginna, le teorie differenti che tentavano di fare luce su cosa inizia, dirige e sostiene l’azione erano già almeno centoquaranta. Oggi è ipotizzabile che i sistemi esplicativi sul tema siano molti di più, forse fin troppi se ricercatori come Dewsbury arrivano ad ipotizzare che “il concetto di motivazione tende ad essere usato come un cestino di rifiuti per una serie di fatti la cui natura non è conosciuta”.

Le scienze sociali ed in particolare la psicologia hanno fatto della motivazione un elemento centrale del proprio studio, soprattutto da quando alcune innovative ricerche hanno evidenziato come la quantità e la qualità dei risultati che otteniamo dipenda più da essa che dalle reali conoscenze e abilità che possediamo.
Anche alla luce di ciò potrebbe diventare particolarmente interessante capire quali siano i fattori in grado di orientare, dirigere e mantenere la nostra condotta. Per farlo occorre fare riferimento a chi, prima di noi, ha provato a comprendere cosa soggiace al nostro e all’altrui comportamento. Sicuramente non sarà necessario andare ad analizzare tutte le centinaia di teorie sul tema, ma sarà sufficiente riflettere sulle tre ipotesi che ne hanno maggiormente influenzata l’indagine. In tal compito la storiella che ha aperto questo scritto può venirci in aiuto.

Il primo tagliapietre:

                                   Motivazione e istinto……

I primi studi sul tema della motivazione, risalenti alla fine dell’800, individuarono nell’istinto il motore dell’agire umano. Se la scuola europea in proposito poneva l’accento sugli aspetti inconsci sviluppati da Freud, quella americana con a capo William James, sottolineava invece maggiormente l’importanza dell’istinto di adattamento, di “Darwiniana” memoria, come vera motrice del comportamento. Indipendentemente, comunque, dagli assunti di base per lungo tempo l’idea predominante fu che ciò che facciamo dipende da una disposizione psicofisica innata, difficilmente modificabile.
Tale visione, oggi forse contestabile, risultò particolarmente coerente con il contesto in cui si sviluppò. È bene ricordare, infatti, che quest’idea nacque a seguito della rivoluzione industriale che caratterizzò il XIX secolo. L’ingresso prepotente della tecnologia e di nuovi macchinari portò a una rigida standardizzazione del lavoro che non richiedeva più operai specializzati, ma poteva essere gestita anche da una manovalanza dequalificata.

Come ben comprensibile, in tale scenario, la motivazione della forza lavoro non fu sentita come una necessità prioritaria. L’ipotesi dell’istinto come base della motivazione s’identificò, quindi, in strategie organizzative quali la centralizzazione del processo decisionale, il controllo esterno dell’attività e l’incentivazione economica, e in una leadership finalizzata a controllare come detto “disposizioni psicofisiche innate”. In realtà come quella sopradescritta, non credo sarebbe stato difficile imbattersi in individui molto simili per spinta motivazionale, atteggiamenti o e performance al primo tagliapietre della nostra storia.

……Il secondo tagliapietre:

                                              Motivazione e bisogno……

Molto difficilmente una concezione riesce nel difficile compito di ottenere un consenso unanime. Certo non vi riuscirono le teorie dell’istinto. Secondo molti studiosi dell’epoca, infatti, per meglio comprendere le fonti della motivazione umana non era sufficiente analizzare l’individuo e il suo mondo interiore, ma occorreva piuttosto focalizzare l’attenzione sulle dinamiche d’interscambio fra questi e l’ambiente in cui si muove. Il concetto di bisogno andò così a soppiantare l’idea d’istinto. Secondo tale concezione, che si potrebbe definire “tensio-riduttiva”, la nostra condotta sarebbe indirizzata soprattutto da un tentativo di sopperire a una mancanza, dunque a colmare una discrepanza fra ciò che ci necessita e ciò che l’ambiente ci offre. Nello sviluppo di queste teorie un ruolo fondamentale lo assunsero gli studi condotti da Murray prima e da Maslow poi. Secondo entrambi il bisogno rappresenterebbe la forza psicologica in grado di dar vita ad un’attività finalizzata a ripristinare una condizione di equilibrio.

L’esempio del secondo tagliapietre ci aiuta a meglio comprendere questa posizione: quanto lavoro e quanta fatica si può accettare, infatti, pur di soddisfare il bisogno di nutrire la propria famiglia.
Secondo Murray però a spingerci all’azione non ci sarebbero solo i cosiddetti bisogni primari o “viscerogeni” che corrispondono alle esigenze fisiologiche – come l’esigenza di proteggere la propria famiglia del nostro scalpellino, la fame, l’evitamento del dolore, la sicurezza personale, ecc. – ma anche bisogni secondari o “psicogeni”, ossia esigenze scaturite come risposta alla pressione che riceviamo dall’ambiente (riconoscimento, autonomia, appartenenza, stima, ecc.). Come ovvio la soddisfazione dei primi anticiperebbe e favorirebbe la soddisfazione dei secondi.
Nel 1954, anno di pubblicazione del libro “Motivation and Personality”, Abraham Maslow, aggiunse poi un tassello importante agli studi di Murray, introducendo l’idea che l’individuo tenderebbe naturalmente all’emancipazione, liberandosi sempre più dai vincoli derivanti da bisogni di carenza – fisiologici, sicurezza, appartenenza – per accedere a bisogni di crescita (etici, di creatività di trascendenza).
Secondo lo psicologo statunitense esisterebbe una vera e propria “gerarchia di bisogni” che l’uomo nel corso della propria vita scalerebbe per giungere alla propria auto-realizzazione.
In tale ottica il grado di motivazione individuale sarebbe strettamente correlato alla possibilità di procedere nel proprio percorso evolutivo.
Secondo questa concezione il nostro tagliapietre una volta provveduto alla propria famiglia, se troverà le giuste condizioni ambientali, sarà spinto nel proprio agire da bisogni di appartenenza, di stima e auto-realizzazione.
Tale teoria pur presentando alcune evidenti fragilità, riscosse e tuttora in parte riscuote, grande successo soprattutto nell’ambito della psicologia delle organizzazioni e nella gestione delle risorse umane. Il lavoro di Maslow offrì, infatti, nuove prospettive di management soprattutto nel momento in cui il modello taylorista del lavoro mostrò i propri limiti.
Secondo le teorie dei bisogni le organizzazioni possono essere efficaci nella misura in cui riescono a favorire in chi vi opera la soddisfazione di bisogni di ordine superiore come autostima, crescita, valorizzazione del talento, ecc.
Perché ciò accada, occorre poter contare su leader in grado di integrare bisogni individuali e organizzativi, di promuovere una “vision emancipativa” e di predisporre percorsi lavorativi ad essa funzionali.

…Il terzo Tagliapietre:

                                     Motivazione e significato…

Pur avendo rivestito un ruolo fondamentale nel campo dei processi motivazionali, le teorie fondate sui bisogni cominciano oggi a cedere un po’ il passo a favore di nuovi sistemi centrati più sullo sviluppo delle potenzialità che al soddisfacimento di mancanze.
La complessità che caratterizza il contesto attuale sembrerebbe richiedere leve motivazionali di natura differente.

Forse un modello, che spiega la spinta ad agire come il tentativo di colmare la discrepanza fra ciò che ci occorre e ciò che l’ambiente ci offre, perde parte della propria efficacia quando quest’ultimo ha poco da offrire.
Soprattutto quando le condizioni attorno a noi diventano critiche o frustranti, infatti, a influenzare in modo rilevante le nostre scelte, il nostro impegno e i nostri risultati non sarà tanto la realtà in sé, ma il significato che siamo in grado di attribuirgli.
Le più recenti ricerche della psicologia cognitiva e delle neuroscienze aprono nuovi ed entusiasmanti scenari.
Secondo tali approcci la nostra mente non si limita solamente a reagire a stimoli interni ed esterni a noi, ma agisce modificando gli uni e gli altri attraverso processi di anticipazione, autoregolazione e attribuzione di significato.
Il grado di motivazione con cui perseguiamo le nostre mete dipenderebbe quindi dalle convinzioni che possediamo, dall’idea di controllo che percepiamo di avere su ciò che ci circonda e dal senso che conferiamo al nostro agire.
Ciascuno di noi nell’arco della propria vita, esperienza dopo esperienza, interagendo con il proprio contesto di riferimento, costruisce e consolida alcune credenze rispetto a sé e all’ambiente che lo circonda. Esse guideranno influenzando i nostri stati affettivi, le nostre scelte, i nostri comportamenti. Gli studi di Martin Seligman sull’Impotenza appresa” e di Albert Bandura sulla “Percezione di auto-efficacia” sono illuminanti a tal proposito.

Secondo entrambi le capacità individuali e le opportunità che l’ambiente ci offre non sono sufficienti a spiegare i risultati cui giungeremo. La differenza delle performance individuali, infatti, va cercata negli “stili attribuzionali” cui ciascuno di noi si affida. Le persone sono stimolate ad agire se sono convinte di ottenere, grazie alle loro azioni, i risultati che si prefiggono e se attribuiscono alla realtà un significato funzionale allo scopo.
Il futuro sorriderà pertanto alle organizzazioni che permetteranno ai propri membri di trovare senso e direzione al proprio essere e al proprio agire, favorendo in tal modo quelle proprietà regolative, riflessive e generative che sottostanno alle performance ottimali. Per raggiungere tale obiettivo sarà fondamentale per il sistema poter contare su strategie di leadership finalizzate a far crescere nei propri collaboratori l’agentività” ossia la facoltà di far accadere le cose, intervenendo sulla realtà ed esercitando un potere causale.

l leader di oggi e ancor più di domani, dovranno esser in grado di favorire nei propri team l’autonomia, la capacità di riflettere su se stessi traendo vantaggi dall’esperienza e la consapevolezza che le difficoltà, in cui ci si imbatte durante il cammino, non devono essere considerate personali, pervasive e permanenti.
Così facendo anche in un momento particolarmente ricco di criticità come quello attuale le organizzazioni come il terzo tagliatore di pietre potranno edificare Cattedrali bellissime.

 

ANNO 6 N.2

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  • BIBLIOGRAFIA:
  • ARGYRIS, C. “Integrating the individual and the organization” ed. John Wiley & Sons, (1964)
  • AVALLONE, F. “Psicologia del lavoro” ed. La Nuova Italia Scientifica, (1994)
  • BANDURA, A. “Autoefficacia. Teoria e applicazioni” Ed Centro Studi Erickson, (2000)
  • CAPRARA, G.V. “Motivarsi è riuscire: le ragioni del successo” ed. Mulino (2013)
  • MASLOW, AH. “Motivazione e personalità̀” ed. Armando(1973)
  • PICCARDO, C. “ Empowerment” ed. Raffaello Cortina, Milano (1995)
  • QUAGLINO, G.P. “La vita organizzativ”. ed. Raffaello Cortina (2004)
  • SELIGMAN M. “Imparare l’Ottimismo” ed Giunti (2007)

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